Viktor Navorsky, proveniente dalla Krakozhia (stato immaginario, nato a Hollywood per evitare contenziosi con le repubbliche dell'Est europeo), approda a New York. Purtroppo per lui, proprio quando dovrebbe passare il controllo passaporti, nel suo paese c'è un golpe che ne invalida i documenti. Viktor non può entrare negli Usa, perché sprovvisto di passaporto valido, ma non può nemmeno ritornare nel suo paese, il cui nuovo governo non è riconosciuto dagli Stati Uniti. Si trova così intrappolato in quella terra di nessuno che è il terminal dell'aeroporto, un non-luogo dove deve imparare a inserirsi senza conoscere l'inglese e senza un soldo in tasca, nell'attesa che la burocrazia trovi una soluzione. È questo lo spunto di The Terminal di Steven Spielberg, film scritto da Andrei Niccol, Sacha Gervasi e Jeff Nathanson che (va detto) prende lo spunto da una vicenda realmente accaduta all'aeroporto di Parigi. A interpretare il tenerissimo Viktor, Spielberg ha chiamato Tom Hanks, eccezionale nell'esibirsi in un bizzarro "gramelot" bulgaro, che ha chiamato a raccolta le sue capacità comiche per costruire un personaggio fisicamente a metà strada tra Harpo Marx e Jacques Tati. Sì, perché quello che poteva diventare un vibrante film di denuncia sociale, o un dramma angoscioso, è trattato da Spielberg con levità d'altri tempi. Dopo Prova a prendermi, infatti, il regista sembra aver svoltato verso una celebrazione dei "buoni sentimenti" come non si vedeva dall'epoca di Frank Capra. È vero che Spielberg, da E.T. in poi, non ha mai lesinato lacrime e commozione, toccando i nervi più sensibili dello spettatore, indifferente al fatto che si parlasse di robottini orfani (A.I. ' Intelligenza Artificiale), o di una tragedia delle dimensioni della Shoa (Schindler's List). Questa volta però non c'è il filtro della ricostruzione storica, né l'opportunità di addentrarsi nei terreni dell'immaginario fantascientifico. In The Terminal, mette in scena una personale denuncia dell'America d'oggi, del Bushismo guerrafondaio, incapace di solidarietà umana, che non sa accettare l'"altro" da sé. In qualche modo è l'equivalente di Fahrenheit 9/11 di Michael Moore, anche se il messaggio, anziché urlato, è sussurrato tra le pieghe dei personaggi secondari. Indimenticabile Stanley Tucci, nel ruolo dell'ottuso e arido burocrate aeroportuale Frank Dixon, che ingaggia un'inutile lotta personale con Viktor, mentre Catherine Zeta-Jones, l'hostess Amelia Warren in perenne crisi sentimentale, permette a Tom Hanks di sciorinare l'intero repertorio del "buon selvaggio". Il colpo di genio dell'intreccio però (che non va rivelato a nessun costo e garantisce la lacrima anche sul ciglio dello spettatore più insensibile), è la scoperta dei motivi del viaggio di Viktor, che chiude degnamente questa fiaba morale.