Recy Taylor ha 24 anni quando viene sequestrata e stuprata da un gruppo di sei ragazzi bianchi (il più giovane dei quali ha solo 14 anni). Siamo nell’Alabama del 1944 e la sua storia è simile a quella di moltissime donne di colore vittime di violenze mai raccontate. Donne che non contano nulla (“countless”) nella società razzista degli Stati Uniti del Sud, le cui voci restano sospese in un limbo  di vergogna, menzogne e occultamenti più o meno clamorosi. Non quella di Recy Taylor, che trova il coraggio di denunciare i suoi stupratori e diventa il simbolo di una nuova generazione di donne “parlanti”, disposte a lottare per rivendicare i propri diritti. È a loro – ma soprattutto a chi non è riuscito a farsi ascoltare – che la regista Nancy Buirski dedica il suo ultimo lavoro, The rape of Recy Taylor.

Il documentario ricostruisce la vicenda di Recy attraverso un suggestivo intreccio di voci e di linguaggi: le lucide testimonianze del fratello e della sorella cadenzano il ritmo portante della narrazione, arricchita da interviste a studiosi, filmati d’epoca e sequenze estrapolate dai cosiddetti race film – una sorta di genere cinematografico minore, prodotto per il pubblico afroamericano fino agli anni Cinquanta. La persona di Recy ci viene riconsegnata nella sua dimensione sonora e visiva, sia come voce incorporea che racconta con fermezza l’accaduto, sia sotto forma di ritratto fotografico: in posa, lo sguardo fiero che trafigge l’obiettivo, sotto il buffo cappellino con la veletta, Recy ha la dignità di un’eroina, di una pioniera (non è mai vittima).

Non a caso la sua figura è associata nel film a quella dell’attivista Rosa Parks, la madre del movimento per i diritti civili, che si interessò al caso di Recy ben prima dei fatti di Montgomery e dell’epocale boicottaggio degli autobus. Nella scena finale, il corpo e a voce di Recy tornano a ricongiungersi nella sua immagine attuale di donna anziana. Nonostante la sequela interminabile di dolori affrontati nell’arco di una vita, she’s still around, a rappresentare un monito di speranza e di sorellanza per tutte le generazioni, passate, presenti e future.

Un buon documentario, equilibrato e stilisticamente originale, che affronta con tatto questioni enormi a tutt’oggi tragicamente attuali.