Germania, 1970 circa. Una ragazza urla, si dimena, parla con una voce non sua. Possessione o schizofrenia? La comunità si spacca, ma alla fine si opta per un esorcismo dagli esiti catastrofici. La diciannovenne muore per le ferite riportate nel corso del rito, il prete che l'ha condotto finisce sotto accusa. Non manca niente alla vera storia che ha ispirato The Exorcism of Emily Rose: c'è l'horror, il legal thriller, il confronto tra scienza e fede, la forza di un'attualità sempre più alla ribalta. Troppa carne al fuoco, però, perché il regista Scott Derrickson imbocchi con forza una direzione sola. Il risultato è un ibrido che si smarrisce nell'indecisione, tentando maldestramente di adottare un doppio registro. La scelta registica si specchia nella soluzione narrativa adottata: due ambienti e due livelli, a cui la sceneggiatura di Derrickson e Boardman affida lo sviluppo della vicenda. In tribunale, l'esorcista Moore e il pubblico ministero mettono in scena, insieme all'agnostica avvocatessa Laura Linney, l'incontro-scontro fra scienza e fede, ragione e religione. Dalle testimonianze in aula, prendono poi spunto i numerosi flashback che illustrano il dramma della protagonista. Brava e stralunata quanto basta, Jennifer Carpenter non è però messa in condizione dalla sceneggiatura di calcare sui toni horror. Le sue litanie diaboliche fanno anzi rimpiangere in più di un'occasione l'indemoniata Reagan di tutt'altro Esorcista.