Il cinema messicano degli ultimi anni ha rivelato al mondo un paese inquietante, sprofondato in una fittissima zona grigia in cui ogni genere di atrocità è permesso grazie alla complicità di funzionari dello Stato. La più giovane generazione di filmaker provenienti da lì – quella dopo Inarritu, Del Toro, Arriaga, per capirci – non ha trovato altra chiave per raccontare un paese così, se non quella di un realismo nudo e crudo al limite della sostenibilità. La fine di ogni pudore e prudenza di sguardo ha costituito finora l’unica risposta possibile se commisurata all’oscena violenza dei narcotrafficanti e delle loro propaggini statali.

Ebbene, Te prometo anarquìa di Julio Hernandez Cordon, è un tentativo apprezzabile ma ancora incerto di superare un’istanza naturalistica che rischiava di diventare gabbia, chiusura di sguardo piuttosto che apertura.

Nel raccontare la vicenda di due giovani skaters omosessuali, che tirano avanti tra sesso clandestino, sniffate di colla e commercio illegale di sangue (nel senso letterale di procacciare donatori di emoglobina) in favore dei narcos, Cordon e la sua direttrice alla fotografia Maria Secco avvolgono il monotono buttarsi via quotidiano in una pellicola più morbida, cogliendo un’increspatura di sogno nel reale, un processo di rarefazione in slow motion, dall’anima mélo, i colori acidi e gli intermezzi musicali vintage, che spaziano dallo slowcore di Galaxie 500 e il pop latino di Los Iracundos (durissima la loro versione di Sunny). Il riferimento, non fosse altro per la presenza degli skaters, è Paranoid Park di Gus Van Sant, ma l’esigenza di astrazione stavolta è diversa: qui è sollievo.