Un film di Calvin Klein. Non sarebbe un danno, se l’avesse diretto lo stilista americano, eppure Song to Song nei credits porta un altro nome: Terrence Malick. Oramai sappiamo, e bene, che non è più questo di Knight of Cups, To the Wonder, The Tree of Life il Malick delle origini e degli splendori prolungati, quello di La rabbia giovane, I giorni del cielo, La sottile linea rossa. E’ un altro Malick, e il passaggio di stato, nel 2005, ha avuto un titolo sintomatico: The New World (2005). Un nuovo mondo, un nuovo Malick.

Tra piscine a sfioro, abiti firmati, ville fighette e backstage musicale ad Austin, Texas (Austin City Limits e Fun Fun Fun Fest, Iggy Pop, Flea, Patti Smith e Val Kilmer), Song to Song denuncia una sciagura non redimibile: Malick ha delegato la bellezza del suo cinema alla bellezza dei suoi attori.

Sono belli, tutti belli: Ryan Gosling, Michael Fassbender, Rooney Mara, Natalie Portman e Cate Blanchett. Hanno geometrie “amorose” variabili - triangoli, incastri, duelli e trielli – e sensualità dichiarata ed esibita, ma raramente gioiosa e nemmeno estatica: sono voci bianche, a cappella e però soliste. Film con attori, eppure non d’attori: appaiono, più che altro. Fanno poco, e quasi zero sesso.

Il cinema di Malick, in fondo, si tiene oggi tra il sesso che non si deve e la morte che non si deve, alla Bazin, ma l’intorno è vuoto, pletorico, affidato a un montaggio sinaptico e simpatico e poco più. Forse è bello farlo, e girarlo per gli attori, un film così, ma vederlo? Suonala ancora, Terrence, ma se il passaggio da una canzone all’altra è questo perché? De profundis. Song to Song è una corona di fiori sul feretro.

Non è accanimento terapeutico quello di Malick, intendiamoci, ma raramente altrove si “vede” con tale chiarezza come il cinema sia oggi aporico, sofferto e terminale: tutto il cinema, forse, segnatamente quello del regista classe 1943 di Ottawa, Illinois. Che affida ai corpi la sola bellezza, ai dialoghi e le voci sopra parole che non tengono e versi che non dicono, al montaggio il reframing di un tempo che non è più, un’immagine che non è ancora: è, come la moda, un’immagine che vuole vendere un’idea, questo film, ma quale idea?

Si arriva, con Gosling e Mara, alla trivella, ai pozzi, ai campi, al lavoro vero, a un mondo fattivo, fattibile, percettibile ed esperibile, ma è solo destinazione finzionale e, ahinoi, fittizia: il cinema di Malick oggi non sa dove andare, e passi, ma – ed è vizio capitale – nemmeno portarci con sé. Perché ha un enorme, fesso e disperato problema con la verità: bastano poche pose, e poche parole, a Patti Smith per rubare il film e insieme decretarne l’artificiosità, perfino l’insulsaggine, fallibile e perniciosa. Si capisce bene, Malick vorrebbe essere ancora (come) Patti Smith, invece è solo bello e vacuo.

E alla fine, triste ma vero, il suo Song to Song lascia un unico interrogativo: Ryan Gosling ha imparato a suonare il piano per Malick, per La La Land o - tertium datur - già sapeva farlo? Ad maiora.