Uno dei più grandi artigiani del cinema nostrano, quando ancora l’industria cinematografia di genere era floridissima entro gli italici confini, è stato Sergio Corbucci, la cui sorprendente carriera è raccontata nel godibilissimo doc di Gioia Magrini e Roberto Meddi, presentato alla Festa del cinema di Roma.

Attraverso la morbida voce narrante di Massimo Ghini che rievoca pagine dell’autobiografia del regista, seguiamo il percorso esistenziale di Corbucci, dall’infanzia e adolescenza nella Roma fascista e nel dopoguerra, sino agli esordi come aiuto regista e poi regista di melodrammi e peplum in voga negli anni cinquanta. Ma è col western, la passione di una vita, che Corbucci offre il meglio di sé: opere di grande pregio come Django, Il grande silenzio e Vamos a matar, compañeros sono lì a testimoniarlo, ponendo il loro autore fra i grandissimi dello spaghetti-western insieme agli altri due “Sergi” nazionali, Leone e Sollima.

Emerge, in sostanza, il ritratto di un uomo buono e cordiale, dotato di quell’humour tipicamente romanesco e di quel senso pratico che lo poneva in grado di spaziare con efficacia dal western alle commedie con Totò protagonista, dai gialli ai film della coppia Bud e Terence, tutte produzioni immancabilmente premiate da grandi incassi al botteghino. Corbucci è stato, in conclusione, un uomo di cinema a tutto tondo e visceralmente innamorato del proprio lavoro: il doc di Magrini e Meddi, L'uomo che ride,  pone molto bene in risalto entrambi gli aspetti, collocandosi, di fatto, tra i frutti di quel processo di ripensamento critico che, dopo anni di becero ostracismo, sta finalmente permettendo di recuperare alla storiografia cinematografica italiana i nomi gloriosi della produzione passata.