Pensavo fosse amore invece era un posto fisso. Checco Zalone è tornato, quarto film, ancora per la regia di Gennaro Nunziante. Un’elegia del posto fisso, che dialettizza con l’amore: “Amava la fissità del posto mio”, recita la realpolitik di Checco di fronte alla fidanzata sfidanzata. Ma prima del cuore, le chiappe sulla solita sedia: è l’elogio cantato della Prima Repubblica, corredato di vilipendio istituzionale (Mattarella si nutre di foche…) e reprimenda sull’abolizione delle province.

Checco politico, dunque, nella misura in cui il suo uomo comune lotta tra Puglia, resto d’Italia e mondo (Norvegia e Polo Nord) per ristabilire il primato dell’ignoranza, della cafonaggine, ergo, dell’italianità sugli eterni e nuovi nemici: “gender”, “gender fluid”, multiculturalismo, famiglia allargata, educazione civica, femminismo o, meglio, mera parità di genere. Quo vado?, questo il titolo, è interrogativo esistenziale e comportamentale, soprattutto domanda retorica e performativa: “In sala!”, risponde il pubblico. Nel senso di Pavlov, è cambiato però lo stimolo: questo Zalone è meno irriverente, sguaiato e coatto (cozzalone) dei precedenti, il film più compatto, costoso e, sì, ambizioso.

Stupido tirarlo per la giacchetta, Checco, chiedersi se sia di destra, sinistra o che, perché lui incarna il minimo comune denominatore, il quid, il DNA dell’italiano medio: né di destra né di sinistra, dunque democrazia cristiana. Dovesse tornare la balena bianca, arriverebbe seconda: Checco è già tornato, Checco – Nunziante parla di comicità cristiana, non a caso – è già cristianodemocratico. Non ha la pretesa di innalzare il pubblico, né di degradarlo, solo di esserne il primus inter pares: il posto fisso, Zalone, ce l’ha ormai nel nostro immaginario, con conseguente multimilionario box office.

La sua parabola è la nostra: dall’ufficio provinciale caccia e pesca al gatto e topo con la spietata dirigente ministeriale Sironi (Sonia Bergamasco); dalle peripezie su suolo italico all’approdo al Polo Nord, dove conoscerà la ricercatrice Valeria (Eleonora Giovanardi) e spippetterà un orso polare. A far da cornice e collante il racconto che Checco tesse di queste avventure davanti a una tribù africana: non è terzomondismo, non è razzismo, solo esotismo, perché Checco rispetto al cinema italiano è esotico, straniero, l’eccezione che invalida la regola.

Non avrai altro “film da vedere” all’infuori del mio, recita il suo primo comandamento, e gli italiani democristianamente osservano: perché? Non capita spesso di ritrovarsi in carne, ossa e ilarità sul grande specchio / grande schermo: non deformati, ma riformati. Dalla vis comica e dalla lente antropologica di Checco: uno di noi, più di noi.