L’idea di usare la mitologia di Elvis come metafora di quella americana è talmente ovvia che vederla sfruttata solo oggi, nel 2017, da Promised Land di Eugene Jarecki è piuttosto sbalorditivo.

Ma a vederle bene le cose, ed è quello che fa precisamente questo bel documentario presentato fuori concorso a Cannes, il cerchio delle analogie può chiudersi solo ora che un tycoon ed ex mattatore di reality come un Briatore qualunque si è stabilito alla Casa Bianca.

C’è indubbiamente un radicamento progressista e disilluso nel progetto di Jarecki che orienta inevitabilmente la percezione della storia americana come mistificazione e il suo qui e ora come catastrofe, di cui Donald Trump sarebbe il garante. Lo si vede dagli interlocutori scelti dal regista, rapper neri incazzati neri, attori anti-sistema (da Alec Baldwin a Ethan Hawke), attivisti di varia natura, scafati uomini di mondo e il popolo affamato della Waste Land del Sud, dove Elvis stesso è nato (Tupelo, Mississippi) e si è fatto Re, The King (Memphis,Tennessee).

Voci dall’America profonda o profondamente democratica, che Jarecki accoglie nella Rolls Royce grigio metallizzata che Presley preferì all’autoctona Cadillac, come segno di una regalità imperiale, esportabile, come quella che gli Stati Uniti stavano conoscendo immediatamente dopo la bomba di Hiroshima e la fine della Seconda Guerra Mondiale.

Queste due storie, chiamiamole pure epopee, procedono insieme e insieme rivelano prima uno splendore che abbaglia, poi un lato oscuro infine un disfacimento, perfettamente icastico nel fiato corto e nel corpo sbracato di Elvis, tanto quanto la faccia paonazza e iraconda e il riporto color carota sembrano segni terribili della crisi di immagine americana, che è anche crisi di coscienza. Qui apparire ha voluto sempre dire essere.

Trascinato da un montaggio potente, da un uso del materiale d’archivio non inedito ma sempre energico, dai contributi ora puntuali, ora sarcastici, ora squisitamente creativi degli ospiti che accompagnano il regista attraverso l’America, da Sud a Nord, da Est a Ovest, seguendo un’ideale Presley Route, Promised Land demistifica il Mito per antonomasia - Elvis che fa la fortuna con la musica dei neri, appropriandosi del blues suonato nei locali di colore di Memphis; Elvis che lascia la Sun Records per contratti più vantaggiosi; Elvis che dimentica il rock & roll per darsi a Hollywood, ecc… – trasformandolo ogni volta nel segno di un tradimento più grande: quel sogno americano alimentato dal sonno americano e dall’apparato ideologico e politico dell’intrattenimento industriale. Musica, Cinema, Sport.

L’ipotesi che Elvis, col suo enorme potere inespresso e consegnato al Sistema, abbia tradito il suo Spirito ribelle (era partito come James Dean, sarebbe tornato come John Wayne, si dice a un certo punto di lui), è troppo allettante per non estenderla allegoricamente al Paese e al suo establishment che ha tradito la missione civilizzatrice nel mondo svelandone il movente economico e gli automatismi del Capitale.

Eppure è impossibile, nonostante il disperante ritratto del destino americano che, come l’Angelus Novus, si proietta verso un futuro di incertezze con lo sguardo rivolto alle rovine di ieri, non sentire ancora il fascino che emana questa Terra Promessa, le storie di chi vi ha creduto e che hanno saputo trasformarsi, con tutte le furbizie e le stupefazioni e gli inganni, narrazione collettiva, spinta comune, orizzonte condiviso: Stati Uniti. Nella riconfigurazione immaginifica e kitsch di Elvis è stata Graceland.

Per un pezzo della sua vita – ne siamo certi, lo possiamo sentire - ci ha creduto anche lui. Prima che il demone dell’autodistruzione lo prendesse e ne corrompesse l’innocenza.

Prima che quella promessa di terra diventasse solo un’altra terra promessa.