Difficile raccontare, descrivere questo film del quarantaquattrenne sudcoreano Kim Ki-duk, lanciato in Europa da una serie di affermazioni nei festival di Venezia, Locarno, Berlino. Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera è infatti indescrivibile, si sottrae alla narrazione, alla sintesi, come d'altronde alla traslitterazione degli ideogrammi che tanta parte, misteriosa ai nostri occhi, hanno nella vicenda.

È cinema allo stato puro, è visione/contemplazione delle cose senza il degrado della messa in scena e con raro ricorso alla parola. Peraltro il doppiaggio non gli giova: meglio sarebbero i sottotitoli per non intaccare la magia sonora di una lingua "incomprensibile". Certo, si può dire che il film è ambientato in un minuscolo tempio su una chiatta nel lago Jusan Pond, un'isola di beatitudine, ma non solo, nel mezzo delle montagne.

Là un bambino impara dal suo maestro la dottrina buddhista con un apprendistato basato sull'esperienza, ad esempio sulla messa al bando della crudeltà contro gli animali (difficile non pensare alla tortura "tornata di moda" in Iraq). Stagione dopo stagione, il bimbo cresce, diventa un giovanotto, s'innamora di una ragazza giunta lassù bisognosa di erbe curative e la segue in città dove un giorno - accecato dalla gelosia - la ucciderà.

In fuga, il Nostro si rifugia nell'eremo lacustre per espiare il delitto attraverso una scrittura rituale e quindi si lascia arrestare da due poliziotti. E non manca la scena "comica" del vano tiro a segno dei detective armati di pistola contro un bersaglio che il vecchio monaco zen colpirà senza prendere la mira, con un sassolino! Anni dopo, dal carcere il protagonista rientra nel tempio del maestro - che panteisticamente s'era dato fuoco su un pira galleggiante -, e rinverdisce gli esercizi spirituali e marziali, pronto a sua volta a farsi mentore di un altro bimbo, a introdurre una nuova primavera.

Il tempo è circolare, è un eterno ritorno, è tutt'altro dall'idea lineare del progresso, un mito occidentale. Ma ciò detto, è detto nulla. Il film è altrove, è un pesce nell'acqua per la naturalezza mai noiosa delle scene, è spiazzante persino rispetto all'estetica del regista, il pittore-sceneggiatore-montatore-scenografo-attore Kim Ki-duk (lo vediamo nei capitoli autunnale e invernale) che ci aveva sedotto col raffinato erotismo e la violenza implosiva di film come L'isola e Indirizzo inesistente.

Le diverse stagioni corrispondono, secondo lo stesso autore, "al tema delle qualità che cambiano negli esseri umani: il senso della maturità nelle nostre vite, la crudeltà dell'innocenza, l'ossessione nei desideri, il dolore nei propositi omicidi e l'emancipazione nella lotta". Altro non vorremmo aggiungere. Anzi, questo sarebbe un film da recensire con una pagina bianca di stupore.