"Doveva essere dentro di lui un vasto paese, i cui sentieri selvaggi soltanto lui conosceva ed esplorava...": parole tratte da In The American Grain (Nelle vene dell'America) del poeta William Carlos Williams, parole che Sergio Leone volle dedicare alla moglie Carla in apertura di una raccolta dei ricordi fotografici di C'era una volta in America. Mi sono tornate in mente, vedendo Mystic River di Clint Eastwood, un film che non manca di elementi di contatto con quello di Leone: la vicenda spezzata in due stagioni lontane l'una dall'altra, quella dell'infanzia e quella della maturità; protagonisti appartenenti in entrambi i casi ai "piccoli bianchi" che popolano le periferie metropolitane; storie d'innocenza perduta, come l'ha definita Eastwood; di una illusione, secondo Leone. Ma già in queste due definizioni, sottilmente, impercettibilmente diverse, si può intravedere il profondo solco che le divide. Per Leone l'illusione viene rappresentata da una iperrealtà, è "l'effigie di una reverie nostalgica affrancata dai rimpianti", reverie che nell'84, anno dell'uscita del film, rievocava tre epoche già entrate nel mito americano: le età del proibizionismo, della Grande Crisi e della beat generation, tutte e tre riviste in chiave di melodramma, come si addice a un regista italiano e come viene sottolineato dalla partitura di Ennio Morricone. Per Eastwood l'innocenza infantile si perde a causa di un intervento esterno, che nulla ha spartire con il fisiologico mutamento della società: la pedofilia, il crimine più abbietto che si possa immaginare e che trasforma la vittima, quando la ritroviamo a 25 anni di distanza, in una sorte di morto vivente. Il ricordo di Leone a questo punto si appanna. Siamo piuttosto dalle parti di Romero e di Carpenter; il Carpenter ultimo, di Vampires e di Fantasmi da Marte; il Carpenter che all'uscita del film marziano ha dichiarato: "Io ho avuto a che fare col diavolo, quand'ero assai giovane". Il film di Leone si apriva e chiudeva in una fumeria d'oppio, simbolo della beat generation; Mystic River si apre e chiudere su un tombino che all'inizio inghiotte la pellicola da hockey, con cui giocavano i tre ragazzi e, con la pallina da hockey, la loro innocenza sporcata e mai restituita; un film noir con venature fantastiche, che potrebbero portarlo nei pressi dell'horror. E ce l'avrebbero portato, se i ragazzi fossero stati i rampolli della borghesia bostoniana (Boston e il Mystic River, che l'attraversa sono l'ambiente in cui si svolge la vicenda). Il film trascende i paletti del genere, per divenire un'autentica tragedia. Così come avveniva con i gangster proletari di Fratelli, diretto da un Abel Ferrara in stato di grazia. Oggi la tragedia, l'ineluttabilità del fato, la trovi soltanto nel Terzo Mondo e nelle periferie degradate del primo. Quando sali di classe, puoi tutt'al più fare dell'horror o della commedia nera. Eastwood l'ha intuito perfettamente, prendendo a prestito una storia di semplice cronaca nera. C'è più horror nelle asettiche immagini di Elephant, dove Gus Van Sant mette in scena una strage senza senso umano, consumata in un lindo liceo, che non nella buia descrizione di un quartiere popolare di Boston. E, tuttavia, qualcosa lega i due film che illuminarono lo scorso Festival di Cannes: la loro visione della contemporaneità, tragica nel film di Eastwood, incomprensibile in quello di Van Sant. Da entrambe esce una immagine degli States, molto più inquietante di quella del proibizionismo, della Grande Crisi,della beat generation, cantate da Sergio Leone. Da "C'era una volta" a "C'è oggi in America".