La love story tra due ragazzi irlandesi si trasforma nel pretesto per immergersi nella filosofia, nel gioco delle percezioni e nei dubbi esistenziali. Che cosa è reale? Qual è il confine tra giusto e sbagliato? “Se ci nascondiamo dalla morte non possiamo vivere”, spiega la sedicenne Emily, cresciuta tra le poesie di Wordsworth e i capolavori di Steinbeck.

La madre non c’è più, il padre è ricoverato in un istituto psichiatrico, e lei è sola con i suoi pensieri. My name is Emily gioca con i rallenty esasperati sulla spiaggia e con le ambizioni alla Terrence Malick.

Poi si tuffa nell’on the road per seguire le avventure della protagonista e di Arden, un ragazzo innamorato dall’aria anonima. I due attraversano l’Irlanda per ritrovare il padre di Emily, ma in fondo stanno cercando la forza per affrontare le difficoltà quotidiane.

Il regista Simon Fitzmaurice si innamora della macchina da presa e si dimentica di scavare a fondo nell’anima dei suoi personaggi. Di Arden non sappiamo molto, l’obiettivo è puntato su Emily, che vive il travaglio dell’adolescenza con la spocchia da prima della classe. La passione non scalda, il dramma non commuove, e la platea rimane sospesa in un limbo di retorica e artifici.