Chi bussa alla porta di quella casa nel bosco? Uomini rispettabili (all’apparenza), donne attraenti, assassini, folli e chi più ne ha più ne metta. Non c’è pace per la bella coppia di sposini che vive in mezzo alla natura, lontano dal frastuono delle metropoli e dal caos contemporaneo. Lei, la bellissima Jennifer Lawrence, supporta l’ombroso marito Javier Bardem in ogni sua decisione. L’amore è letteralmente sacrificio tra quelle mura poco rassicuranti, che sembrano godere di vita propria: la stufa si accende da sola, le pareti pulsano e, qualche volta, respirano.

mother! vorrebbe essere il Rosemary’s Baby del 2017, ma mette troppa carne al fuoco e non riesce ad avvicinarsi al capolavoro di Polanski. L’horror del 1968 attaccava il capitalismo, la borghesia e si interrogava sulle contraddizioni dei benpensanti. Era una parabola amara sulla speranza perduta, sull’oscurità dell’esistenza, che trovava la sua luce nel Demonio. E il finale da antologia divide ancora oggi sull’inquietante contenuto di quella culla.

Il regista Darren Aronofsky cerca di girare un film politico/religioso, lasciando l’orrore alla porta. Abbraccia tutti i drammi della pazzia moderna. I genocidi, la repressione, l’incapacità di comunicare, i desaparecidos: è una sfilata grottesca che non ha fine. E poi le tensioni religiose, il terrorismo sullo sfondo e l’eterna lotta tra il diavolo e l’acqua santa, senza dimenticare il cannibalismo e le messe nere. Intanto i rumori assordanti si moltiplicano, e le parole diventano urla, strepiti, e sfociano nella violenza sregolata.

La tensione delle prime sequenze cede il passo all’impossibile e al manierismo, a quella voglia di stupire con ogni singolo fotogramma. Servirebbe un po’ di umiltà in mother!, con qualche riflessione in meno. La sincerità di The Wrestler si è smarrita sull’arca di Noah, mentre un selvaggio Russell Crowe combatteva l’invasore sotto il Diluvio universale. Il talento di Aronofsky è indubbio, Requiem for a Dream e Il cigno nero non hanno bisogno di presentazioni. Sul grande schermo scorrevano le tragedie della tossicodipendenza, la mercificazione del corpo, e la straordinaria Natalie Portman incarnava l’essenza dell’ambiguità, dell’eterno contrasto tra le ossessioni e un triste presente.

Darren Aronofsky
Darren Aronofsky
Darren Aronofsky
Darren Aronofsky

Aronofsky si innamora dei suoi protagonisti. Inchioda la macchina da presa sul volto dell’innocente Jennifer Lawrence (ora anche sua compagna di vita) e crea inquadrature lunghe, quasi claustrofobiche, lontane dal montaggio serrato di Pi greco – Il teorema del delirio. La segue ovunque, costruisce la storia sulla sua espressione da eterna bambina e, all’inizio, sembra quasi funzionare. Poi il carosello di ospiti rovina l’atmosfera, e talvolta si ride invece di saltare sulla sedia. Lei scopre di essere gravida già al mattino, mentre i primi raggi di sole entrano dalla finestra. Intuito femminile, dirà qualcuno, ma dopo poche ore dall’unione neanche un test di gravidanza potrebbe determinarlo. Lo scandalo è rimandato, l’artificio è servito.