La sete di potere offusca la mente, diventa un’ossessione e rischia di trasformarsi in un’arma a doppio taglio. Le cospirazioni sono animali selvaggi difficili da domare, che spesso si rivoltano contro il proprio padrone, lasciandolo morente sulla strada del cambiamento. Il regista e sceneggiatore Armando Iannucci racconta la fine di un’epoca in Morto Stalin, se ne fa un altro, una commedia nera, pungente, dove le parole sono colpi di pistola. Un termine sbagliato può decretare la vita o la morte di migliaia di persone innocenti, mentre a palazzo le più alte cariche del regime cercano di spartirsi la Grande Madre Russia.

Siamo nel 1953, il periodo delle purghe, delle torture della polizia segreta e dei rastrellamenti di massa. Joseph Stalin crolla sul pavimento per un’emorragia cerebrale, ma la sua morte verrà annunciata alcuni giorni dopo. Il Paese si stringe attorno al feretro del suo leader, mentre nell’ombra si scatena una lotta in stile House of Cards, con falce e martello.

I fedelissimi di Stalin chiocciano come galline impaurite attorno al loro gallo senza vita, e si preparano a prendere il suo posto. Il successore legittimo è Georgy Malenkov, un burattino nelle mani di un partito di squali, che aspettano il momento giusto per sbranarsi a vicenda. Il depravato Lavrentiy Beria, capo della polizia segreta, cerca di eliminare il suo diretto avversario Nikita Khrushchev, per poi circuire Malenkov e governare la nazione. Ma nessuno ha fatto i conti con il generale Georgy Zhukov, un uomo senza scrupoli, pluridecorato sul campo, che può scatenare un golpe tra un banchetto e una messa. Si aprono le danze, che vinca il più dannato.

Morto Stalin, se ne fa un altro è una satira feroce sulla follia che regola un regime totalitario. I politici se ne infischiano del popolo e pensano solo al proprio tornaconto, con la tracotanza di ritenersi al di sopra della legge. I peggiori crimini rimangono impuniti e a pagare è la gente comune, che non ha i mezzi per difendersi. Passano i decenni, ma certe dinamiche non cambiano. I leader degli Stati continuano a dare scandalo, però non abbandonano il comando, e restano al vertice nonostante i processi in corso.

 

Il film di Iannucci, tratto dalla graphic novel di Fabien Nury e Thierry Robin, è un affresco incisivo, che fa riflettere anche sul marcio delle democrazie occidentali. Il regista scozzese segue la scia del suo In The Loop, una sferzata sarcastica sulla guerra in Iraq, e dopo aver attaccato il capitalismo vola dall’altra parte del mondo per affrontare il comunismo. La sua arma è una sceneggiatura quasi teatrale, ambientata nei saloni sfarzosi e negli angoli più bui, dove nessuno può sentire i sussurri dei congiurati. Vedremo se, come preannunciato, Morto Stalin, se ne fa un altro sarà censurato in Russia, in un clima da nuova Guerra Fredda in cui anche un film può rappresentare un attacco alla Storia.