Da Benjamin Britten a Mozart, passando per Saint-Saëns e Hank Williams. Il tutto, "rivisto e plasmato" per le esigenze del racconto da Alexandre Desplat, sul quale torneremo più avanti. E' prima di ogni cosa un film-concerto Moonrise Kingdom di Wes Anderson, film d'apertura - in concorso - del 65° Festival di Cannes: e lo dichiara sin dalla prima sequenza, straordinario carrello interno dentro l'abitazione della famiglia Bishop, con due bambini intenti ad ascoltare "The Young Person's Guide to the Orchestra, Op. 34 (Themes A-F) di Benjamin Britten, e la primogenita Suzi (Kara Hayward) di vedetta, con tanto di binocolo, in attesa della prossima lettera del suo amato. E' il coetaneo dodicenne Sam (Jared Gilman), che a breve dalle parole passerà ai fatti. Fugge dal campo scout supervisionato da Ward (Edward Norton) e, insieme a Suzi, si dà alla macchia, in mezzo ai boschi dell'isoletta sperduta sulle coste del New England. Sulle loro tracce si metteranno lo sceriffo locale (Bruce Willis), i genitori della ragazza (Frances McDormand e Bill Murray) e una zelante assistente sociale (Tilda Swinton), decisa a prendere in custodia Sam, orfano che neanche i genitori affidatari vogliono più.

Non è la prima volta, è vero, che Wes Anderson mette al centro del proprio cinema i giovani e i loro turbamenti; non è una novità, allo stesso tempo, che il regista de I Tenenbaum e Le avventure acquatiche di Steve Zissou riesca a mettere insieme un cast di così alto livello e sfruttarne il talento anche solo in maniera "complementare" (qui è il caso di Harvey Keitel, che compare verso la fine del film e avrà sì e no tre pose). Non sorprende, poi, il consueto gusto per una messa in scena che, già nel momento di "farsi", sembra prevedere il ritmo definitivo che sarà dato solamente in fase di montaggio (affidato, come per i precedenti Il treno per il Darjeeling e Fantastic Mr. Fox, ad Andrew Weisblum) e l'abituale ricercatezza in campo musicale: quello che davvero lascia a bocca aperta, in Moonrise Kingdom, è l'esplosività dell'insieme di questi fattori, il "concerto" - come si diceva poco sopra - che il regista e ogni dipartimento della produzione (dalla fotografia di Robert Yeoman alle scenografie di Adam Stockhausen, volutamente declinate a cartonati pastello che richiamano gli antichi villaggi Playmobil) sono riusciti ad imbastire al di qua e al di sopra della storia, ambientata nel 1965.

Che finisce quasi per sottomettersi alla maniacalità della "costruzione", ma che torna poderosamente in vita proprio grazie, e soprattutto, al lavoro sulle musiche operato da Desplat. Doverosamente ringraziato - forse come mai accaduto prima in un film - durante i titoli di coda: con la voce over che, alla stessa stregua dell'inizio del racconto, "illustra" l'entrata in scena dei vari strumenti musicali che hanno contribuito a creare il tutto.