Innanzitutto un film necessario, per denunciare e rendere illegale l'usanza barbara dell'infibulazione delle bambine. Cioè l'escissione parziale dei genitali femminili per limitare in seguito il desiderio sessuale e l'eventuale adulterio verso il futuro marito (e perciò definita "purificazione"). Secondo il regista di Moolaadé, l'82enne maestro del cinema senegalese Sembene Ousmane, tali mutilazioni sono tuttora praticate in oltre 25 paesi africani sui 50 riconosciuti dall'ONU. Una tradizione secolare arbitrariamente fatta derivare dalle prescrizioni del Corano, per esempio nelle zone africane di credo musulmano. Viene applicata da donne preposte con mezzi primitivi (coltelli), procurando alle piccole vittime infezioni ginecologiche (fino all'HIV), se non la morte. Una tortura che però "passa" come dovere familiare fra madri e figlie, sotto il tacito nulla-osta dei maschi della tribù, poligami e mariti-padroni. Moolaadé (premio Un Certain Regard a Cannes) racconta la presa di coscienza contro l'infibulazione da parte di madri e mogli di un villaggio dell'Africa. Lo strumento della ribellione è la magia del "moolaadé", il sortilegio che protegge col diritto d'asilo i fuggiaschi che si rifugiano in casa di chi ha tale potere. L'angelo custode in questione è Colle Ardò, donna controcorrente che sette anni prima si era rifiutata di sottoporre la figlia all'escissione. A lei chiedono aiuto quattro bambine, scappate per paura dal rito della "salindé" e dalle sacerdotesse che lo officiano, mostrate come una specie di congrega di streghe vestite di rosso. Colle Ardò dà inizio al "moolaadé" sbarrando l'ingresso della sua casa con una corda colorata: nessuno oserà oltrepassare la soglia ed offendere lo spirito della "protezione", che altrimenti causerebbe rovina e morte al trasgressore. Attraverso la coraggiosa resistenza, neanche piegata da una pubblica punizione a colpi di frusta per mano del marito (istigato dai "saggi" anziani), la donna catalizza il risveglio dell'indipendenza muliebre. Infine "disarma" le sacerdotesse mettendo fine all'usanza crudele (almeno lì), alla faccia degli scandalizzati maschi che avevano sequestrato le radio delle donne, per impedire loro l'ascolto di musica e notizie. Il regista allarga la problematica dall'infibulazione al bisogno vitale dei "media", per uscire dal vecchio isolamento aprendosi alla modernità. Una donna del posto dichiara: "Vogliono chiuderci il cervello". E il figlio del capotribù (che ha studiato a Parigi), al padre accecato da schemi "talebani" risponde: "Non si può far tacere radio e televisione, oggi fanno parte della nostra vita"...

Per saperne di più leggi l'articolo completo sul numero di marzo della Rivista del Cinematografo.