L’atmosfera è quella del Medioevo dell’Italia settentrionale ne Il nome della rosa, sudicio e plumbeo come lo volle negli anni ottanta Jean-Jacques Annaud per la sua trasposizione del best-seller di Umberto Eco; la cifra stilistica e narrativa, però, è tutta del maestro iraniano Amir Naderi, qui al suo primo film di produzione italiana.

Monte è la storia di Agostino, un padre di famiglia poverissimo, intenzionato a resistere ai piedi di una montagna che grava, spargendo aliti di morte come una maledizione pagana, sulle comunità circostanti. Rimasto solo con la moglie e con il figlio adolescente, additato da tutti per la sua sospetta lontananza dalla fede cristiana, l’uomo crede di poter dare un senso alla propria esistenza imbastendo una lotta titanica contro la montagna nel folle tentativo di demolirla a picconate.

Tra le pieghe di questo sforzo immane che rimanda, inevitabilmente, ad alcune delle tante “imprese” cinematografiche di Werner Herzog, Naderi innesta tuttavia una riflessione viscerale sul tema della presenza di Dio tra le miserie e la sofferenza dell’uomo, riflessione che si dispiega per improvvise, piccole e silenziose epifanie, a dimostrazione che l’arte del cinema rivela se stessa negli scarti dalla norma, che sorge dalle pause più che dalla confusione affabulatoria, dalle immagini, appunto, più che dalle parole.

Esempio solido di un cinema austero e rigoroso, racconto morale di caduta e rinascita, Monte si avvale anche di uno straordinario montaggio sonoro, curato dallo stesso regista, che concede libero sfogo alla voce perturbante della montagna con i suoi rumori e i suoi suoni indistinti e misteriosi. Fondamentale infine l’apporto della fotografia cinerea di Roberto Cimatti, perfettamente al servizio di una vicenda fatta di terra, di roccia, di mani insudiciate e sanguinanti, di dolore e di ricerca di riscatto.