Amal e Samir sono sposati da vent’anni e, nonostante attraversino una crisi profonda che riempie di tensioni la loro quotidianità, decidono comunque di uscire a cena per festeggiare il loro anniversario di matrimonio. La coppia ha un figlio Fahim, il quale preferisce trascorrere le sue giornate a fumare in compagnia degli amici, piuttosto che frequentare l’università. Tra questi ci sono Feriel e Reda: la prima porta impressi nel corpo e nell’anima i segni di un segreto orribile – che riguarda il brutale assassinio di sua madre – ed è costretta a subire le vessazioni dispotiche di padre e fratello; il secondo vive la sua fede islamica in termini piuttosto estremi e sembra aver intrapreso un percorso di radicalizzazione. Questi cinque personaggi principali si muovono come pedine sull’enorme scacchiera rappresentata dalla città di Algeri – un vero e proprio labirinto di linguaggi, musicalità e contraddizioni – che nasconde tra le sue viscere di pietra il dramma di un passato (prossimo) di sangue e violenza.

Primo lungometraggio per la regista Sofia Djama, che realizza un convincente spaccato realistico della società algerina sopravvissuta agli orrori della guerra civile. Una storia sull’immobilità, sull’appartenenza, sul compromesso, sul peso delle scelte, sui dilemmi del partire e del restare. Nelle vicende umane dei protagonisti risuona l’eco di un malessere esistenziale cupissimo, che dalla generazione dei padri si trasmette a quella dei figli come una maledizione, una sorta di cancro inestirpabile contro cui non è possibile lottare. Più che un luogo geografico, nelle intenzioni di Sofia Djama, Algeri è uno stato mentale, un ricettacolo di oscenità ontologiche.

Un film molto parlato, carico di dialoghi e di suoni, che forse rivela il suo senso più profondo in ciò che non si dice.