La prima volta non si scorda mai. Soprattutto quando è un'esperienza felice come Lamb, primo film etiope della storia ad essere selezionato dal Festival di Cannes (sezione Un Certain Regard). Un'opera prima sorprendente per sensibilità di sguardo e padronanza dei mezzi espressivi, realizzata da Yared Zeleke (lungo apprendistato a New York, alla cattedra di Todd Solondz) e interpretata dal piccolo ma grandissimo Rediat Amare.

Amare è Ephraïm, che vive con il padre e una pecora color nocciola in un villaggio del Nord Etiopia. La madre invece è morta da poco. Ephraïm è un ragazzino sui generis per gli standard locali: in una Paese in cui le incombenze domestiche sono di esclusiva pertinenza delle donne, lui ha l'hobby della cucina, per la quale sembra avere una dote innata. Per non dire del suo rapporto con la pecorella, cui dà un nome e tratta come fosse un cagnolino. Quando però il padre decide che è ora di trasferirsi ad Addis Abeba per cercare un lavoro e il figlio viene affidato a dei parenti che vivono lontano tra le montagne della regione del Gondar, le particolarità di Ephraïm non vengono più tollerate ma trattate come tare da correggere. Il ragazzo non deve avvicinarsi ai fornelli bensì lavorare con lo zio sui campi. La pecorella invece dovrà essere sacrificata nel giorno della Croce Santa, per essere consumata da tutta la famiglia. Ephraïm inizia a pianificare la grande fuga per mettere in salvo se stesso e la sua amata pecora.

Zeleke non perde mai di vista il suo "agnellino", accostandolo con tenerezza disarmante ed elevandolo al rango di altri suoi mirabili coetanei del mondo del cinema, dal piccolo Antoine Doinel dei Quattrocenti colpi al caparbio Oskar di Molto forte, incredibilmente vicino. Un indifeso mollato da tutti (la madre, il padre, la cugina, persino la pecora), disperatamente bisognoso d'amore, costretto a muoversi tra le regole degli adulti e quelle dei più forti.

Lamb è uno struggente racconto di formazione attraversato da dolorosissime fitte di solitudine, amplificate dai piani lunghi e mozzafiato che Zeleke e Josée Deshaies (già direttrice della fotografia dei film Bonello) ci regalano di questo angolo d'Africa inedito, più vicino alla Terra di Mezzo che ai classici paesaggi da Continente Nero. Ma è un po' tutta l'operazione a rivelare un approccio fresco, estraneo ai tradizionali canoni del cinema africano, capace di compattare la narrazione e di veicolarne il senso partendo dal dato naturale e sociale del mondo inquadrato (la distanza spaziale dalla città e dal villaggio d'origine, che per Ephraim segna anche una lontananza affettiva; il cibo come rituale e necessità, fonte di aggregazione e di preoccupazione, strumento di autodeterminazione e insieme di censura familiare) per arrivare alla mescolanza di registri e toni diversi, dal comico al drammatico, dall'etnologico al fiabesco.

Per la Camera d'Or è il nostro favorito.