Un film di memoria e di speranza. Un film tedesco fatto da tedeschi che perfora coraggiosamente, con la forza dell'autenticità, uno dei tanti episodi tragici - e questa volta marginali ma non meno importanti e commoventi - della storia di quel popolo. Alla Mostra del Cinema di Venezia, la scorsa estate, per ben due volte siamo stati condotti nel non troppo lontano 1943. Con il bel film polacco Pornografia di Jan Kakub Kolski (chissà se mai troverà distribuzione) seguivamo lo struggersi e il distruggersi di un gruppo di autoreclusi in una tenuta estiva della Polonia invasa; con Rosenstrasse precipitiamo, invece, nel cuore stesso del potere nazista, Berlino. Margarethe von Trotta, già narratrice delle diverse dimensioni legate agli anni di piombo, ha fatto un percorso sincero: ricostruisce in modo originale e denso di pathos un fatto che si collega più che mai alle vicende spaventose del suo popolo e di quello ebraico, uniti in un mare di sangue, sopraffazione, aberrazione. In Rosenstrasse, la via del titolo, sono racchiusi uomini ebrei sposati a donne tedesche, insomma quella metà contaminata ed impura che macchia il matrimonio. Insomma, una spina nel fianco dell'ideologia nazista, del Reich millenario, della fabbrica di uomini geneticamente provati ed approvati. Le donne vogliono i mariti a loro sottratti, i nazisti vogliono la loro eliminazione fisica, la storia vuole la sua giustizia. Qui si innesta la doppia memoria, di Ruth e di Lena, che il destino, come molti altri imprevedibili destini dell'epoca, riunisce per sempre. Nel 2002, sempre a Berlino, Ruth cerca di sopprimere il passato senza nemmeno più nominarlo, nel momento sofferente di un lutto familiare, imponendosi un silenzio pieno di significato; Lena, invece, lo ripercorre e lo racconta senza pudori, quel passato recente, interpretandolo come un momento vissuto eroicamente. Il loro presente rimane però indivisibile. Ruth aveva perso definitivamente la madre, ritrovandola in Lena, mentre Lena (di una prestigiosa famiglia ariana che l'ha espulsa crudelmente dal suo nucleo) è angosciosamente separata dal marito ebreo. Sono state, e lo sono ancora, a modo loro, due donne coraggiose: la prima aggrappandosi, per sopravvivere, ad una nuova identità e famiglia, la seconda guidando il gruppo di indomite donne tedesche, giorno e notte vigilanti in quella strada, sino alla loro ideale vittoria. Una comunità di persone che si fronteggiano per quelle insensatezze spaventose nate dalla mente e dagli ideali umani, quando sono perversi. La von Trotta governa benissimo l'oscillare dei tempi e del racconto, coordinato dalla figura della figlia di Ruth che si tuffa nel passato per fare chiarezza sul presente, suo e della Germania. Non concede nulla al sentimentalismo, alla spettacolarità del dolore, all'effetto pietà, alla condanna a priori: in modo bifronte cerca soltanto di riappacificare lei stessa e lo spettatore con il non rimosso di quell'epoca. Da segnalare le attrici: Katja Riemann, che giustamente ha ricevuto la Coppa Volpi come migliore interpretazione femminile, Jutta Lampe, Maria Schrader e Doris Schade, tutte splendide. E poi la fotografia, la puntigliosa ricostruzione, il sonoro. Dopo Il Pianista di Polanski, anche le madri coraggio della von Trotta vincono con la loro passione, il loro pianto, la loro determinazione a combattere, con le sole armi del cuore, le follie della storia.