Il cinema italiano, soprattutto quello di casa nel Nordest, sempre più spesso è tentato dalla strada del realismo fiabesco, come dimostrano i casi recenti de I tempi felici verranno presto di Comodin (nella sua variante autoriale) e di In fondo al bosco di Lodovichi (in quella più orientata al genere). Le caratteristiche di questo vero e proprio filone - che vanta lontane ascendenze con la lezione di Olmi e con quella del primo Avati - sono l'ambientazione in una piccola comunità alle pendici della montagna, la prossimità di un bosco, la presenza minacciosa di una qualche creatura (il lupo, il diavolo, l'orso), una cifra espressiva ambiguamente sospesa tra naturalismo e allegoria.

Tutte caratteristiche che ritroviamo ne La pelle dell'orso di Marco Segato, operazione che cerca di conciliare la singolarità di uno sguardo con un paradigma narrativo di genere, incardinato in questo caso nelle traiettorie del racconto di formazione.

Il risultato però rischia di penalizzare l'uno e l'altro: l'occhio sulla natura (vera e propria realtà epifanica) e sulla sfera più antropologica e arcaica, davvero interessante, si perde nell'inseguire una narrazione di genere senza ritmo e piuttosto prevedibile (sceneggiatura tratta peraltro da un romanzo).

Imperdonabile poi la mancanza di coraggio nell'utilizzo, in vece del dialetto, di un italiano da doppiaggio, freddo e falsissimo. Il ritorno di Marco Paolini sulla scena avrebbe meritato occasione migliore.