Il dolly che apre il film, con la macchina da presa che plana su un paesaggio bucolico di case di roccia e luce lunare, ci immerge subito in un'atmosfera da favola che spazza via ogni dubbio in merito alle reali intenzioni.

Questa commedia "alla francese", non ce ne voglia Eric Lartigau ("Abbiamo imparato da Age e Scarpelli", aveva dichiarato ai nostri microfoni il regista de La famiglia Bélier), non è l'erede di quella all'italiana, ancorata al contesto e moralmente schifata al punto da confondere il ghigno e le lacrime, ma di quella da new deal americano, meravigliosa, consolatoria e catartica, tra l'urgenza e la fede. Ovviamente aggiornata ai tempi, che sono quello che sono (e i francesi colpiti in casa dalla crisi e dal terrore ne sanno qualcosa) e necessitano di uno strappo, un balzo in avanti.

In attesa di una meglio epoque, il cinema francese odierno rimodella nella luce piena del giorno e con una leggerezza mai vuota la storia di un popolo che non ha tanto bisogno di sognare, ma di credere nuovamente ai suoi sogni.

Non basta dunque che la vicenda di un giovanissimo talento canoro in una famiglia di sordi scriva il suo lieto fine nella finzione, ma deve esserci anche la controprova della realtà, a dare peso, corpo e verità alla materia dei sogni. Così, la Paula del film è anche (e soprattutto) la straordinaria Louane Emera della realtà, una sedicenne venuta dalla sfigata provincia del Nord (come la sua controfigura della finzione) e capace in pochi mesi di bruciare le tappe dello showbiz, grazie alla sua partecipazione al talent The Voice.

La sua performance ne rivela il talento al pubblico di casa, il regista la nota, la scrittura per la parte. E la sua favola, che favola non è nel momento in cui si avvera, continua con lo straordinario successo del film (oltre sette milioni di spettatori in Francia), Premio Rivelazione ai Cesar, incisione del primo disco. Questo spiega molto del perché La famiglia Bélier sia divenuto un caso cinematografico. E la dice lunga sulla capacità del cinema transalpino di fare sistema, di attivare sinergie, scambi, vasi comunicanti tra media nell'impasto di un unico e vincente immaginario. Noi, che pure abbiamo i nostri The Voice e i nostri X-Factor, dovremmo imparare. Ma la commedia italiana resta nei salotti della sinistra radical-chic, quella che la televisione non la vede.

Ovviamente La famiglia Belièr non è solo un riuscito interscambio mediatico. I francesi dimostrano ancora una volta che non sono i cliché, gli stereotipi e i colpi bassi a determinare successo e insuccesso del film, ma il modo in cui si combinano con una struttura drammaturgica elastica, schiettezza di scrittura, attori sintonizzati e il cellophane di una confezione accattivante ma non irrealistica.

Mutuata con intelligenza la formula di Quasi amici (la disabilità sdoganata come dispositivo narrativo umoristico ma mai offensivo ), trovata la chiave nel percorso di maturazione, il meccanismo nel mash-up dei linguaggi (dei segni, del canto, del cinema), non restava che indovinare gli interpreti (Karin Viard, François Damiens ed Eric Elmosnino), azzeccare la musica (le canzoni di Michel Sardou, una sorta di Claudio Villa di casa). Fatto.

Si ride, più spesso si sorride, ci si commuove pure, nel finale. Nulla di trascendentale per carità, ma passare due ore con La famiglia Bèlier non dispiace. La realtà è altra cosa, chi lo nega? Il film ci ricorda solo che a volte può essere migliore di come la si immagina. Louane insegna.