Può piacere o meno, ma è un fatto che il cinema di Saverio Costanzo abbia una personalità e un respiro piuttosto insoliti nel panorama italiano.

Un'estraneità di interessi, gusti, sensibilità e idee che nasce probabilmente dal lungo tempo trascorso lontano dall'Italia, in America, dove il regista è tornato a girare ambientando il film che porta in gara alla Mostra.

Hungry Hearts è tratto però da un romanzo italiano, Il bambino indaco di Marco Franzoso, così come da un bestseller nostrano era tratto anche il precedente La solitudine dei numeri primi, con il quale molti sono i punti di contatto: una narrazione sincopata, l'attitudine borderline dei personaggi, la latente mostruosità della famiglia, l'uso allegorico degli spazi, le distorsioni e le disarmonie visivo-sonore.

La storia si dipana tra ambienti che da strettissimi diventano sempre più vasti: il bagno di un ristorante cinese, un appartamentino a Brooklyn, una casa in campagna, una spiaggia. La progressione spaziale corrisponde in realtà a una regressione nella love-story tra l'americano Jude e l'italiana Mina che, da vicinissimi, si scopriranno sempre più lontani. E di mezzo c'è una gravidanza inattesa, un figlio prima non voluto e poi eccessivamente amato, l'idiosincrasia di Mina per la medicina ufficiale e le sue convinzioni in materia alimentare (è vegana) che metteranno a serio rischio la vita del piccolo.

E se Adam Driver e Alba Rohrwacher ci restituiscono perfettamente e tormentosamente due personalità a loro modo “malate” - che a un certo punto Costanzo deforma col grandangolo - ma degne di misericordia, è il mondo in cui si muovono i personaggi - e da cui i personaggi verranno inghiottiti - a rivelare una faccia anche più folle e sinistra.

Costanzo lavora per accumulo, costruendo un'atmosfera morbosa e opprimente che sembra nutrirsi dei cattivi pensieri dei due protagonisti (e viceversa).

Hungry Hearts è un melo' denso di suggestioni horror e di tracce psicanalitiche, che rivela un'attenzione alla messa in scena e una disinvoltura musicale che a tratti sfiorano il ridicolo.Certe prese di posizioni faranno discutere (i vegani sono avvertiti, ma non solo), ma al regista non si può contestare il coraggio e la libertà espressiva.

Autentico cinema del disagio.