Scorrono due tipi di parole durante Human Flow: i titoli dei giornali che descrivono le varie situazioni dei migranti e dei rifugiati e le parole dei poeti delle aree che vengono raccontate. Capire e rappresentare, la cronaca e l’arte: Ai Weiwei, artista superstar tra i più discussi e famosi al mondo, esordisce al cinema (in concorso alla Mostra di Venezia) con un documentario che prova a mescolare sotto il suo sguardo e la sua presenza due delle anime più evidenti del cinema che si muove nella realtà.

 

L’artista ha girato il mondo raggiungendo i campi profughi o i luoghi in cui vengono fermati i migranti cercando di mappare tutti i flussi migratori, dall’Africa all’Europa, dall’Asia all’America, mostrando la loro vita quotidiana, ascoltando le loro parole e di chi su queste questioni lavora: ne è uscito fuori un film monstre in cui cercare di rendere partecipe il pubblico non solo dei motivi che causano gli esodi e le corrispondenti chiusure di frontiere, ma soprattutto dare l’idea della migrazione come un fenomeno globale e globalizzato, inarrestabile e ingestibile con le politiche attuate.

E per compilare questo puzzle titanico, che punta alla completezza magari a discapito dell’approfondimento di questa o quella situazione (ma sarebbe materia di una serie, non di un film), Ai Weiwei sceglie tanto il registro più schiettamente documentaristico, con parole, racconti e interviste, con immagini di lotta dolore e speranza, quanto quello più artistico, che lavora sull’immagine, sulla sua bellezza e sulla sua capacità d’impressionare lo spettatore (finalmente l’uso del drone ha un suo preciso senso e rigore), ponendo in questo senso tutta una serie di dubbi e quesiti etici ed estetici che non si possono liquidare con facilità.

 

Per esempio, mettersi spesso in scena, dentro l’inquadratura, mentre interagisce con profughi e migranti è narcisismo d’artista? O forse è la risposta di un artista alla costante impotenza dell’arte verso il cambiamento del mondo, il tentativo di un uomo privilegiato di agire in un mondo ingiusto e disperato? E anche la durata lunga e l’andamento ripetitivo sono difetti o l’unico modo per dare dignità a tutti coloro che ingiustizie lunghe e ripetute tengono ai margini?

Parla di frontiere e confini Human Flow, ma è anche un film che certi confini li supera e li confonde, quelli tra rigore e preziosità estetica, tra sguardo oggettivo e prima persona, tra non detto ed esplicitezza: Ai Weiwei si concede il lusso di tradire le regole del documentario o di come lo si concepisce. E il suo tradimento funziona perché è diretto, onesto, giocato sulla sua pelle e con la sua credibilità. Come solo un artista può. O meglio, dovrebbe.