Ci sono film dei quali si vorrebbe dire bene a tutti i costi. Sono quei film dal tema nobile e alto, dai contenuti che moralmente non si possono non condividere, dove i temi trattati – le ingiustizie della guerra, in questo caso – non possono che metterci tutti d’accordo. Se poi questi titoli vengono da una cinematografia cosiddetta “minore”, lontana dai fasti e dai dollari hollywoodiani, ci si sente quasi in dovere di schierarsi a favore, per ragioni di principio e di simpatia.

Il marchio Lab 80, che distribuisce Enclave, garantisce la qualità di tutta l’operazione. Da decenni, la piccola e meritoria Società bergamasca propone con tenacia, nei circuiti d’essai sempre più precari, opere che non avrebbero altro sbocco sul mercato, in lingua originale con sottotitoli, badando alla bontà dell’offerta anziché al profitto facile. Per queste e altre ragioni, si vorrebbe amare questo ultimo sforzo di Radovanović, che parte con le migliori intenzioni ma poi rischia di perdere, nei suoi 92 minuti di durata, buona parte della fiducia che si era conquistato quasi a scatola chiusa.

La vicenda si svolge nel Kosovo post – bellico e il protagonista è Nenad, un bambino serbo che vive in un villaggio albanese. Si sposta con un blindato delle Nazioni Unite e a scuola è l’unico alunno, fino a quando la maestra non lo abbandona per trasferirsi a Belgrado. Il piccolo si troverà ad attraversare le linee nemiche per avvisare il prete della morte del nonno, ma non tutto andrà come previsto. Ancora una volta, l’odio tra due popoli dovrà fare i conti con l’amicizia di due innocenti.

Goran Radovanović è un regista che proviene dal cinema della realtà. Ha sempre lavorato nel mondo del documentario, e il suo unico lungometraggio di finzione è stato The Ambulance, nel 2009. Con Enclave vuole raccontare la paura del diverso, attraverso un inno pacifista pieno di buoni sentimenti. Ma la strategia del ricatto è dietro l’angolo. Usare i bambini per mostrare l’orrore della guerra è un’idea per nulla nuova, e il mondo in lotta, visto attraverso gli occhi di Nenad, invece della tragedia svela un poeticismo un po’ scontato.

L’inizio è intrigante: l’immagine del bambino che legge il tema alla maestra nell’aula vuota basta da sola a introdurci in un clima di solitudine e angoscia. Poi, alla semplicità e verità del racconto si sostituisce un estetismo fuori luogo, la musica diventa enfatica, la narrazione si gonfia di azioni al limite del credibile e di simbolismi ingenui (uno su tutti, l’episodio della campana), e una realtà che vorremmo conoscere da vicino si perde nei meandri della solita cartapesta, quasi fosse un film di genere o una fiction televisiva.

Enclave vuole proporsi come un inno alla pace contro l’orrore della guerra. Un paesino distrutto dalle macerie poteva essere il teatro perfetto per suscitare un’emozione sincera. Invece la regia tende alla retorica. Le intenzioni sono lodevoli, ma all’interno di un autoblindo la luce del cinema non riesce a brillare.