Il giovane Michael (Michael Silva) convinto di essere la reincarnazione di Gesù nel Cristo Ciego di Murrey ha nobili antenati cinematografici, dal Johannes di Ordet al Blakey di Whistle Down the Wind, dal Nazarin di Bunuel al "professore" di Centochiodi.

Dreyer, Forbes, Bunuel, Olmi: quattro modi di rileggere l'archetipo cristologico, accomunati dall'invocazione sottesa "allo scambio", ovvero il bisogno di credere, la Fede come anticamera della speranza.

In questo El Cristo Ciego non è diverso. Il suo pellegrinaggio attraverso il deserto cileno, per recarsi dall'amico menomato che intende guarire con un miracolo, è come un passaggio di luce nella notte (che la fotografia calda e abbacinante di Briones ci fa quasi sentire sulla pelle): non fa giorno, ma porta conforto tra la povera gente, gli abitanti della Pampas cilena, la regione pesantemente sfruttata delle grandi compagnie minerarie.

Questo contrappeso sociale tiene a terra il film, disinnesca eventuali fughe nel trascendente preferendogli un profilo basso e pasoliniano. Gli toglie anche però imprevedibilità e apertura drammaturgica, sacrificando il meraviglioso sull'altare del veritiero.

Un realismo onesto ma poco magico, più europeo che sudamericano, retrò più che altro. Di Murray si preferisce la perizia al coraggio. Che per un'opera prima, l'unica in gara di questa Venezia 73, è quantomeno bizzarro.