Il tempo del documentario d'arte sembra definitivamente accantonato per Elisabetta Sgarbi che, sulla scia del precedente Per soli uomini, continua a pedinare la marginalità della vita di provincia. Colpa di comunismo è in effetti il controcampo al femminile dell'altro, un tratto di esistenza da fare insieme a tre donne rumene immigrate da anni in Italia, ambientato non lontano dal precedente, tra le Marche e le Polesine, con un personaggio di ritorno: Gabriele, l'allevatore di pesci.

Vite, quelle di Ana, Elena e Micaela, simpaticamente caratterizzate dal loro italiano sincopato ma determinate dalla continua ricerca di un lavoro che le porta a spostarsi continuamente tra i piccoli comuni sul Delta del Po, alterate dunque dal movente economico che sembra occludere ogni altra dimensione dell'esistenza. Ma è davvero così?

Colpa di comunismo cerca di guardare attraverso le feritoie più intime di queste donne, scoprendo di che cosa sono fatte le loro giornate, quali rituali, pensieri e passatempi le regolano. Emerge una comunità rumena in Italia molto solidale e anche piuttosto integrata nelle realtà locali, non necessariamente disperata eppure vincolata, se così si può dire, all'utilità delle relazioni piuttosto che a una genuina necessità. C'è sempre un metro economico con cui misurare le cose: la bontà di un lavoro e la compagnia. Il che è persino banale per chi è arrivato nel nostro paese in cerca di fortuna.

Il dato però più interessante di questo documentario è il contrasto stringente tra il valore del tempo e la sua esagerata, inutilizzata, abbondanza. C'è troppo tempo libero che è tempo vuoto. Da qui il riferimento ossessivo e costante all'ora, la durata, dalla funzione religiosa che dura "tre ore e mezza" all'insistenza con cui Gabriele chiede al suo amico rumeno che cosa si fa alla sera. E poi le feste che bisogna organizzare fin tanto che non si lavora.

Questo smarrirsi nel tempo, che accomuna davvero italiani e non della nostra provincia, ha come correlato oggettivo lo spazio vuoto su cui si sofferma dopo ogni scena la mdp della Sgarbi. Unico vero elemento di scarto di un lavoro che per troppi versi dice poco e meno ancora mostra di un esperimento immigratorio complesso, forse il più riuscito e ambivalente tra quelli fatti nel nostro paese.

Un lavoro che ignora le moderne forme di ibridazione del documentario preferendo rifugiarsi in un minimalismo di opportunità. Che fatica a trovare uno sguardo personale sulla realtà che vorrebbe svelare. Perciò forse viene attratto dal vuoto.