“Da quando ho realizzato La vita di Pi, ho capito che nel fare un film in 3D non basta aggiungere solo una dimensione, ma è necessaria una risoluzione che è possibile ottenere solo con un frame-rate molto più alto rispetto a quelli abituali. Il nostro modo di guardare le cose può diventare allora molto più profondo. Penso che il futuro sia davvero emozionante”.

Le parole di Ang Lee nell’introdurre la sua nuova fatica – tratta dal libro di Ben Fountain (È il tuo giorno, Billy Lynn!, minimumfax) – si scontrano, purtroppo, con la resa effettiva che il suo film avrà nelle sale italiane (ma anche negli altri paesi non sarà facile vederlo nella sua forma nativa).

Sì, perché quello che ci arriva è nulla più che un semplice, ennesimo film sul ritorno in patria di un soldato USA di stanza in Iraq celebrato come eroe, costretto a vivere un’esperienza tra il surreale e il grottesco durante l’intervallo di una partita NFL del Giorno del Ringraziamento. Nelle intenzioni di Ang Lee, invece, quella contrapposizione tra realtà e allucinazioni, tra sparatorie polverose e bombardamenti mediatici, andava risolta attraverso un’esperienza talmente immersiva da superare gli abituali concetti di fruizione: 120 fotogrammi al secondo, in 3D. Un film, per questo, ad oggi ingiudicabile. Ma, di sicuro, precursore di un nuovo modo di concepire la visione.