Suonano canzoni di continuo in Beyond the Mountains and Hills, il nuovo film di Eran Kolirin (La banda) al Torino Film Festival dopo la presentazione al Certain Regard di Cannes. Fin dalla prima sequenza: e sono canzoni pop, familiari, diremmo “di classe media”. Successi della musica israeliana che contrappuntano un racconto che della famiglia media e medio-borghese fa il suo cardine.

Un padre che dopo il congedo dall’esercito cerca di reinventarsi agente di prodotti farmaceutici in una società piramidale, una madre insegnante che cerca di sentirsi nuovamente donna flirtando con un proprio studente, una figlia che cerca di avvicinarsi al mondo arabo che la famiglia ha sempre tenuto a distanza. Il destino e la società concorreranno a complicare le loro vite. Scritto dal regista, Me'ever Laharim Vehagvaot (titolo originale del film) è un dramma borghese venato di ironia vagamente surreale in cui Kolirin cerca di analizzare le istituzioni israeliane descrivendo un graduale allontanamento da esse.

Il film racconta tre personaggi - quattro considerando il fratello che segue le vicende da spettatore -  che mettono in crisi le loro radici sociali e culturali per provare a scoprirsi altro da sé: un uomo che dopo la protezione di un lavoro statale e di sicurezze ideologiche granitiche cerca di diventare un uomo intraprendente e di successo, un bulldog dietro le sembianze di un cucciolo di lupo; una donna che ha bisogno di tornare dietro a 20 anni prima cercando negli altri l’attrazione che non prova più per il marito; una figlia che rifiuta le nettezze ideologiche della famiglia e vuole oltrepassare la collina in cui vivono gli arabi per conoscere uno stile di vita e una sensazione familiare molto diversa. Dei tre percorsi, quest’ultimo è il più interessante soprattutto per come Kolirin lo riprende, cercando un’adesione con la giovane interprete Mili Eshet.

Il resto di Beyond the Mountains and Hills è invece preda di cliché che il regista prova a ravvivare con stacchi ed ellissi, con l’uso di stilizzazioni spiazzanti (l’esercitazione militare che sulle note di Chopin diventa una coreografia) e le canzoni usate come didascalie ricorrenti, tanto da chiudere il film come una “morale della favola”. Ma questa morale diventa moralismo a metà del film, assumendo i connotati di un perbenismo ricattatorio che rende tutto programmatico e forzato, persino sospetto e ambiguo alla luce del finale. E così, la disamina di una famiglia sembra diventare la difesa di un nucleo il cui cambiamento è più un rischio che una risorsa. Una battaglia di retroguardia, proprio come le canzoni che lo commentano.