Yuko è appena rientrata dall'Iraq. Qualche omone con la scimitarra deve averla sicuramente tenuta ostaggio in qualche secreta cella della Mesopotamia. Il governo giapponese, poi, nell'aver ceduto ai terroristi, deve averci rimesso parecchio in termini di lealtà con il partner americano. Si comincia in medias res, senza informare nessuno di nulla. Le spiegazioni sono quindi arbitrarie e forse inutili. Almeno per Kobayashi Masahiro, che arriva a Cannes in concorso e si inserisce deciso in competizione con l'impellente necessità di mostrare una sofferenza individuale in chiave esasperatamente realistica (si noti l'asfissiante suono in presa diretta). L'uso abbastanza frequente del piano sequenza, poi, seguendo il pensiero di Bazin, ci dovrebbe portare direttamente all'annullamento del filtro della finzione. Ma forse è proprio per questo sospinto e insistente rifiuto all'integrazione che Yuko subisce da parte di amici, parenti e capiufficio, che la forma in Kobayashi, va quasi a disegnare uno stile espressionista ricco di invenzione visiva, senza trucchi in digitale, senza fronzoli di montaggio e sostanzialmente legato allo sguardo in soggettiva e alle sensazioni intime della protagonista. Quella piccola pausa prima di rientrare nel misero inferno casalingo, quella lacerante rassegnazione di fronte ai ragazzini che le schiacciano coi piedi le vaschette di brodo tanto agognate e acquistate nel market, quell'improvviso alternarsi di stati d'animo opposti che porta spesso alla follia, sono tratti distintivi della narrazione ma soprattutto elementi figurativi di una necessaria riflessione sull'uso del mezzo, di creazione del linguaggio cinematografico, della voglia di raccontare per immagini. Perché la vita di Yuko, non è solo emarginazione sociale postirachena, ma anche sofferenza per una vita sbagliata e zeppa di fallimenti che ha preceduto il volontariato in terra araba. Doppia onta da lavare tra le case basse della periferia giapponese. Ma è qui che l'evocativo senso claustrofobico non si imbottiglia in quella che sembrava l'esposizione palese di un'impossibilità di una via di fuga oltre quella risacca del mare, per una volta sentore di morte. La dilatazione quasi insuperabile di attimi tragici (come la morte del padre, legata incredibilmente ancora alla scelta di Yoko di fare volontariato in Iraq) farà maturare il coup de theatre finale controcorrente. Non è corretto raccontarlo, ma forse non tutto il luccichio e lo sfavillio dell'occidente opulento, può essere la soluzione più ovvia per l'esistenza di chi parla un linguaggio diverso da quello comune.