All'inizio era soltanto un cortometraggio. E si vede. Nato su commissione dell'Istituto Superiore di Etnografia Sardo, per documentare lo stato dell'infanzia nell'entroterra dell'isola. Poi l'esordiente Mereu si è appassionato, ha scoperto una realtà che lui stesso ignorava, e così è diventato un film. Ma si vede anche questo. Quello che ne risulta è un lungometraggio anomalo, con una struttura narrativa forse poco originale, ma giustamente premiato alla Settimana della Critica. Fino a ieri ad insegnare in aula, Mereu gioca sul parallelismo tra stagioni dell'anno e stagioni della vita, per confezionare quattro episodi che, come lui stesso dice, "non hanno tra loro evidenti rapporti di causa-effetto, se non nella contiguità fisica di alcuni personaggi". Dal punto di vista narrativo sembra un'acrobazia funzionale a giustificare il passaggio dall'idea originaria al risultato finale. Da quello dei contenuti e della forma, si dimostra invece un'operazione di grande interesse. Più coerenti e riusciti sono indubbiamente i due episodi iniziali. Guidati dal filo rosso della "scoperta", stupiscono per lo spessore antropologico e la sensibilità registica di Mereu. Nel primo, segue il viaggio di un gruppo di bambini verso il mare che non avevano ancora mai visto. L'intensità del racconto passa per dialoghi incomprensibili, gesti, sguardi che dicono più di mille parole. Gli stessi, con cui il pastore del secondo episodio comunica il suo amore a una turista francese. Lei parla un'altra lingua, lui, da sempre vissuto sulle montagne, non ne parla nessuna. E qui Mereu riesce in un affresco di rara bellezza. Tanto silenzioso, quanto carico di emozioni. Il regista scivola poi nel finale. Guarda caso, proprio quando i suoi personaggi ritrovano la parola, ma perdono la poesia dei due primi episodi. Più interessante il terzo, nel quarto scomoda un finale felliniano davvero un po' troppo ambizioso.