Un ritorno alla fantascienza umanista, alla fantascienza del dialogo, del “un altro mondo è possibile”, anche perché di mondo non c’è solo il nostro. Talento già acclarato e poliedrico, il canadese Denis Villeneuve con Arrival realizza una sci-fi umanissima, che gioca tematicamente - e drammaturgicamente - col tempo, non lineare, per ribadire il nostro libero arbitrio, con tutto ciò che comporta, dolore in primis: la perdita di una figlia, la fine, se non di un amore, di un rapporto di coppia. Nonostante tutto, le incomprensioni geopolitiche, il razzismo, il “prima gli umani” (vedi, “prima gli italiani”), Arrival postula e predica laicamente la possibilità del win-win, di un gioco non a somma zero, in cui il linguaggio e la scienza possano dire la loro, possano realizzare - dopo il dare il nome alle cose: "human" - il secondo privilegio dell’essere umano: l’accoglienza. Accoglienza del diverso, l’alieno, qui un eptapode, ovvero un gigantesco polpo a sette zampe, ma anche accoglienza del proprio destino, dell’antico fato: homo faber della propria sorte, anche quando la conosciamo già, perché l’abbiamo pre-vista nel futuro, e non saranno solo rose e fiori.

Non c’è più spazio per computer ribelli, soprattutto non c’è più senso per monoliti sfacciatamente lucidi, con gli angoli taglienti e l’inintelligibilità per assunto, qui la superficie del guscio alieno, anzi, dei 12 gusci piovuti sulla Terra è ruvida, non presenta alcun angolo e non è contenitore vuoto: servono intelligenze smussate, concave per accogliere, e qui la politica e gli eserciti mostrano tutta la propria inadempienza. Restiamo umani, verrebbe da dire, e ognuno ricordi quel che può, quel che vuole.

La linguista è la solita Amy Adams piena di grazia, lo scienziato un ottimo Jeremy Renner, il colonnello che li assolda Forest Whitaker: un triangolo di cui la Adams saprà fornire la cerchiatura buona per intendere gli alieni e, forse, salvarci. Salvarci non da loro, ma da noi stessi: fantascienza umana e umanista perché centripeta, riflessiva, non distopica, semmai utopica.

Vi torneranno in mente tante cose, da Gattaca a Inception, soprattutto, tirerete un sospiro di profondo sollievo per le sorti magnifiche e progressive del sequel di Blade Runner, affidato a Denis Villeneuve, di cui Arrival oltre alla perizia tecnica – meravigliosa la fotografia di Bradford Young, gattachiane ed emotivamente pregne le musiche dell'abituale Jóhann Jóhannsson – testimonia lo spessore – sì, tocca ripeterci – umanista, l’attenzione introspettiva, la delicatezza nel trattare gli “affari di cuore”, la capacità di dare al genere – ricordate Sicario? – il voltaggio morale e i crismi del cinema d’autore.

L’invasione aliena porta con sé la necessità di evadere da noi stessi, dai nostri interessi particolari, dalle ragioni di Stato, dal gioco in difesa o in attacco per perseverare nel dialogo, per – letteralmente – aprirci all’altro: i tentacoli disegnano, il colore comunica, il sacrificio e il dono sono contemplati. Anche da noi?

Estrema forza di Arrival, sceneggiato da Eric Heisserer a partire dal racconto di Ted Chiang Story of Your Life, sta nel lirismo scevro di stucchevolezze, emozione senza piagnisteo, umanesimo senza buonismo: non ha fretta Villeneuve, non ha mezzucci, né facili entusiasmi da gettare in platea, ma il suo punto di arrivo è fertile, ottimo.