Poliziotto penitenziario, Aiman viene trasferito in un carcere di massima sicurezza. Qui fa conoscenza con il più anziano Rahim, il responsabile delle esecuzioni. Che, poco a poco, intravede in quel ragazzo le giuste credenziali affinché diventi il suo apprendista.

Terzo lungometraggio del 32enne singaporiano Boo Junfeng, Apprentice è un prison-movie sui generis: c'è francamente poco, o nulla, delle solite dinamiche care al filone dei film carcerari, intanto per il ribaltamento del punto di vista, in secondo luogo perché la "prigione" che sembra voler inquadrare l'autore è più che altro quella di un uomo chiamato a fare i conti con la propria coscienza. Ovviamente la messa a fuoco è sulla pena di morte (ancora in vigore in gran parte dei paesi asiatici, e non solo) e attraverso l'evoluzione del racconto comprendiamo quanto, di fatto, il regista si serva del suo protagonista per costringere lo spettatore a mettersi nei suoi panni. E la brusca sospensione con cui si chiude il film è lì a certificarlo.

Prima di arrivare al dunque, però, Boo Junfeng sembra finire imprigionato esso stesso nelle dinamiche soporifere che caratterizzano i primi 2/3 dell'opera: l'esistenza di Aiman si divide tra il lavoro in prigione e il piccolo appartamento in cui vive con la sorella, personaggio che più volte vorrebbe richiamare il fratello a fare i conti con le proprie convinzioni. Ma è un meccanismo che finisce per impiccarsi da solo, così chiuso in questi duetti sfiniti, logorroico e sfibrante. Che un finale ancora più ambiguo non contribuisce a salvare del tutto.