Se The Conjuring è il capostipite a livello creativo e produttivo, dal punto di vista narrativo spetta invece all’ultimo arrivato della “saga”, Annabelle 2: Creation, rivendicare un primato genealogico.

Progetti nati come costola del film del 2013, dedicati al caso della bambola di porcellana col demone dentro (nella realtà una normalissima “doll” di pezza di Raggedy Ann), Annabelle e Annabelle: Creation vanno considerati in effetti non alla stregua di semplici spinoff ma come capitoli di una stessa narrazione.

Non ci sono, è vero, i due famosi demologi americani, Ed e Lorrain Warren, grandi protagonisti de L’evocazione e Il caso Enfield, ma i fatti che riguardano la bambola malefica costituiscono una sorta di prologo alla loro successiva azione salvifica. Questa sequenza temporale determina anche una successione fortemente simbolica tra i film, al punto che è impossibile valutarli se non dentro un’unica cornice ideale. Nonostante le diverse squadre creative, le analogie in questa quaterna (cui dal prossimo anno si aggiungeranno anche The Nun, dedicato alla suora posseduta già apparsa in diversi camei, e The Crocked Man) sono maggiori e saltano all’occhio.

The Conjuring, il brand sotto il quale da ora in poi considereremo indifferentemente originali e spinoff, è un franchise da oltre 1 miliardo di dollari (facendo una previsione d’incasso di Annabelle: Creation di circa 300 milioni di dollari worldwide, in linea con le performance precedenti) che si comporta come un serial televisivo. Per il modo in cui è concepito, per le analogie produttive, per il dialogo molto fitto tra un film e l’altro. Un approccio che determina uno specifico modello economico di lavorazione esaltando, a scapito di figure professionali spiccatamente cinematografiche come il regista, il ruolo del team esecutivo.

In particolare quello di James Wan che, in virtù del suo know-how tecnico ed espressivo, si comporta come una specie di showrunner dell’intero progetto. La natura anfibia della saga (facilmente trascrivibile in una serie televisiva) alleggerisce il peso dei filmaker di volta in volta ingaggiati. Sia Leonetti che Sandberg sono ottimi artigani dell’horror, ma i due Annabelle finiscono per confondersi tra loro e somigliare entrambi alla coppia di film diretti da Wan, L’evocazione e Il caso Enfield, per trovate narrative, scelte registiche, tono e organizzazione degli elementi stilistici e diegetici interni.

Al di là delle singole vicende, che rimestano nel grande calderone di genere fatto di possessioni, diavoli e altre tribolazioni dell’occulto, la saga possiede un riconoscibile look visuale, perfettamente allineato con un discorso insieme allegorico e storicistico sull’America.

James Wan ambisce a ricreare attraverso l’horror, ovvero nei codici e con le finalità riconosciute di una pratica testuale inserita in un sistema mainstream, una controstoria americana: una specie di pastorale al rovescio che, partendo dalle energie liberate e dagli entusiasmi sprigionati subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, nell’investitura politica e morale di una Nazione giovane che aveva mondato il Pianeta dalla minaccia di Hitler, ne racconti l’innocenza perduta.

L’orrore non costituisce solo l’architrave tematica e il ricco serbatoio linguistico di tale progetto, ma gli restituisce una qualità morale, evoca un’atmosfera, ne intuisce la corruzione più intima e ne fa una ricognizione insieme storica e metastorica. Secondo i criteri di un destino tarato sulle ambizioni di un Paese proiettato sempre su un orizzonte sub specie aeternitatis. Lontano dalle crudezze dei torture porn dei primi anni 2000, James Wan concepisce l’orrore sempre come sensazione e lo riduce ogni volta ad abisso spirituale, rifacendosi alla doppia etimologia del termine (una che fa derivare il termine da horsere, l’essere irto e ruvido di qualcosa; l’altro dal termine latino horreum, nel significato di messe, con tutte le connotazioni religiose del caso).

Il movimento tipico di questa operazione è la carrellata in avanti verso il buio, stilema di una grammatica elementare ma capace di arrivare subito al dunque – come il precipitare dentro un “pozzo nero senza fondo” reale e allegorico.

La mdp si muove sempre in maniera sinuosa, elegante, partecipando al gioco seduttivo del maligno. Gioco che utilizza strumenti appropriati come bambole, formine, casette, carillon et alia. E che irretisce, inevitabilmente ça va sans dire, l’infanzia. Da L’evocazione ad Annabelle Creation, sono sempre i bambini a muovere gli appetiti del diavolo, come se le loro anime candide valessero doppio. Il bambino possiede una forza simbolica innegabile perché dice della perdita dell’innocenza del paese.

Le metafore si strutturano secondo un apparato figurativo lapalissiano, tremendamente efficace, che dialoga in maniera sottile con brandelli di altri immaginari, come le vecchie canzoni popolari che Wan utilizza sia come contrassegno di un’epoca che come contrappunto emotivo: pop songs come Sleep Walk di Betsy Brye (1959), Can’t Help Falling in Love di Elvis Presley (1961), Cherish di The Association (1966) o You Are My Sunshine di Jimmie Davies (1939), permettono, insieme all’altrettanto prezioso lavoro sui costumi e il decor, un ancoraggio temporale sicuro e creano all’interno dei dispositivi testuali in cui vengono utilizzati potenti effetti distorsivi. Canzoni melodiche molto note e rassicuranti vengono d’improvviso associate ad apparizioni inquietanti ed eventi nefasti.

Altrettanto decisivo è il periodo storico di riferimento. In particolare Annabelle: Creation, ambientato tra gli anni Quaranta e Cinquanta, in una California rurale, selvatica, bruciacchiata, rimanda con le sue case di legno di una volta, i porticati, la polvere e i deserti, a una vecchia città dell’Ovest, a quell’epopea di pionieri e pistoleri che ha alimentato il genere americano per eccellenza, il western, e la grande mitopoiesi americana. Wan riparte da questa immagine tra la cartolina e la retorica, per immergerla nel bagno d’arresto della sua camera oscura e rivelarne la natura sinistra, demoniaca. L’incubo come negativo del sogno americano. La Creation di Annabelle indica proprio la breccia attraverso cui il male è passato, corrompendo tutto. Il peccato originale. Com’è successo? Quando ci siamo distratti, sembrano chiedersi gli attoniti personaggi della saga? Anche in questo caso la ricognizione è di un’evidenza spaventosa. Sempre in Annabelle: Creation lo vediamo nel prologo, nella dissoluzione della famigliola felice, quando il padre e la madre si distraggono e perdono di vista la bambina, che finisce travolta da un’auto di passaggio.

Dai Cinquanta ai Sessanta, dai Sessanta ai Settanta. Decadi attraverso cui l’America con il faro delle libertà acceso ancora in mano appare ogni volta più smarrita, controfigura del suo stesso mito. Spinta verso la propria dark side. Il delitto Kennedy, il Vietnam, quindi il satanismo dei Settanta. L’innocenza americana sfregiata che James Wan racconta induttivamente, facendo dei Warren il baluardo familiare di una visione nostalgica e a difesa dei valori tradizionali. Gli unici capaci letteralmente di chiudere a doppia mandata scheletri e demoni del paese dentro l’armadio. Che altro non sono se non la tentazione dell’irrazionale (Salem è sempre lì) e la via della violenza. Ciò che salva è la famiglia. Se la famiglia si disunisce, il male passa. Dilaga. E la casa, genius loci familiare per antonomasia, è la prima cosa che viene infestata.