Il cinema si affida ancora una volta al pugilato per redimere i suoi antieroi. Dietro le sbarre, l’unica via per non perdere la ragione è combattere, mettersi i guantoni, digrignare i denti e scagliarsi senza pietà contro il proprio avversario. È la storia vera di Billy Moore, un giovane inglese di Liverpool rinchiuso per tre anni nella famigerata Kong Prem Central Prison di Bangkok, in Tailandia.

Il suo ring è la strada, ma la droga è il nemico che non riesce a sconfiggere. La polizia irrompe nel suo appartamento e lo arresta per ricettazione e possesso illegale di armi (una pistola sul tavolo). Quando lo chiudono in gabbia, lui vorrebbe morire: il mondo che lo circonda trasuda violenza, non esiste umanità tra i detenuti, solo abusi e pestaggi. Moore reagisce come sa, si adatta a quella follia legalizzata, e inizia ad allenarsi. Diventa il campione di Muay Thai (la boxe tailandese) del carcere, e si prepara per guadagnarsi l’ultima ricompensa: la libertà.

A Prayer Before Dawn è una storia di lacrime e sangue, che denuncia le terribili condizioni in cui sono costretti i detenuti tailandesi e non solo. Gli uomini vivono come bestie in celle sovraffollate, dove non si riesce a respirare e l’unico giaciglio è il pavimento. La solidarietà scompare sotto distese di tatuaggi, che distruggono i sentimenti e lasciano affiorare il “mostro” che riposa dentro ognuno di noi. Le sevizie sono all’ordine del giorno. I più deboli vengono stuprati nell’indifferenza altrui e non c’è spazio per il rispetto o l’amicizia. Le guardie mantengono l’ordine col bastone e la frusta, a chi finisce in isolamento non resta che gridare. È l’inferno sulla Terra.

Il film si inserisce nel filone dei prison movie che trovano il loro sbocco drammaturgico nei pugni. L’idea non è originale, senza andare troppo indietro nel tempo, Walter Hill, nel suo Undisputed (con due sequel), aveva rinchiuso il campione dei pesi massimi in una prigione di massima sicurezza. L’accusa era quella di stupro, con un chiaro riferimento a Mike Tyson. L’America perdeva il suo “paladino” e serviva un galeotto del calibro di Wesley Snipes per far sventolare ancora la bandiera a stelle e strisce. In A Prayer Before Dawn, tratto dall’omonima autobiografia di Billy Moore, gli ideali cedono il passo alla sopravvivenza, a quell’urlo di vita che risveglia i dannati.

Il regista Jean-Stéphan Sauvaire affronta una vicenda ruvida, un vero gancio allo stomaco per chi crede nella comprensione fra gli umani. I dialoghi sono scarni, parlano i guantoni, i calci che spaccano le costole. La macchina da presa si concentra sui primi piani, sul contorcersi dei corpi mentre cercano di annientare i propri demoni. I muscoli si tendono, i dorsali si gonfiano, mentre il pubblico aspetta la sua dose di sangue. Come nel precedente Johnny Mad Dog, sui bambini soldato, Sauvaire si immerge nelle tenebre e affonda la cinepresa in una realtà ai confini dell’anima. Ma Bangkok non è così lontana, la brutalità e la disperazione superano il grande schermo per accompagnarci anche dopo l’accendersi delle luci in sala.