Dice Luca Guadagnino che solo alla terza richiesta di Studio Canal ha detto sì, ovvero ha accettato di dirigere il remake de La piscina, anno di grazia 1969, di Jacques Deray, con Delon, Schneider e Birkin. Ha fatto bene: per quattro quinti è un grande film, eppure – diciamolo subito – il quinto è ferale, inconsulto, suicida, sebbene i prodromi, le avvisaglie già ben intuibili, anzi, esibiti nei quattro precedenti. Peccato. Nella nostra, e non solo, recente produzione, non abbiamo mai riscontrato un (m)andare in vacca così palese, evidente, masochista. Vabbè. Viene da chiedersi, ma Guadagnino non ha un amico, qualcuno capace di dirgli che cosa non va e, soprattutto, farsi ascoltare? Archiviato.

Dopo il successo di Io sono l’amore, successo soprattutto americano, Guadagnino ha potuto scegliere, ovvero è stato cercato: ha finito per accogliere la proposta del francese Studio Canal, radunando ad hoc la “solita” e sodale Tilda Swinton, il caro vecchio Ralph Fiennes e due giovani già in ascensore per la fama, Dakota Johnson, figlia di Don e Melanie Griffith e interprete di 50 sfumature, e Matthias Schoenaerts, quello di Ruggine e ossa e altra buona roba.

La piscina 2.0 - film che Guadagnino non ama, viceversa, A Bigger Splash rimanda al docufilm '70s omonimo di David Hockney - è a Pantelleria, in una villa bella assai, con i biacchi, la domestica, il dammuso e una vista superba: vi alloggiano Marianne (Swinton), rockstar afona, e Paul (Schoenaerts), direttore della fotografia. Sono belli, magri, alti e si amano, di un amore estetico, estetizzante. Un passo a due in un locus amoenus, ma a pestare i piedi arriva Harry (Fiennes), produttore di grandi quali i Rolling Stones, bisessuale, affamato, vitale e vivace: è stato per sei anni con Marianne e non è arrivato sull’isola per i capperi. Comunque, Paul e Marianne li ha fatti conoscere lui. Non è solo, con sé una bella e bionda ragazza, riservata, di poche parole: la gatta morta si chiama Penelope (Johnson), e non è l’amante (mai dire mai, comunque) bensì la figlia di Harry.

Sul piano poco cartesiano delle attrazioni, le coppie sono Marianne e Harry, Paul e Penelope: nel primo caso il motore è l’uomo, nel secondo la donna. Viceversa, sul piano dell’autenticità, è tre contro uno: Marianne, Paul e Penelope sono “falsi”, Harry larger than life, amorale come si conviene, gaudente e egotista come succede, franco e diretto come l’acquolina. Le cose, le persone e il resto gli fanno sangue, sesso, e agisce di conseguenza: è lui, il produttore, l’unica vera rockstar, e l’unica vera persona del quartetto. Intuibilissimo come va a finire, non prima di aver sentito ottima musica – gli Stones, of course – e non prima di aver apprezzato come Guadagnino percorre, circoscrive e fende il quartetto d’archi: regia ariosa e calibrata, close-up “incongrui” a evocare la tensione thriller, mood internazionale, andante con brio. Non è una novità, il regista sa il fatto suo, e sa tratteggiare con empatia personaggi – vedi Io sono l’amore – che empatici non sono, piuttosto stronzi e variamente parassiti.

Problema, fuori dal quadrato è l’inizio del disastro: due, gli immigrati e, soprattutto, il maresciallo dei Carabinieri interpretato- perché, perché?!? –da Corrado Guzzanti. Sui migranti che approdano a Pantelleria, bene l’incursione televisiva, con il tg in sottofondo, bene l’utilizzo strumentale che ne fa Marianne, male invece il carico da novanta che ci mette il maresciallo e male - davvero non ce n’era bisogno - il recinto, la gabbia antistante la stazione dei carabinieri in cui giocano a calcio.

Ma il peggio è lui, il maresciallo, brutta copia di Montalbano, che manda tutto in caciara e in malora: vedere per credere, non sveliamo altro, ma tenetevi forti. Guadagnino anziché accontentarsi dell’acqua lustrale e insieme letale della piscina ha bisogno degli acquazzoni, ha bisogno di uscire allo scoperto, uscire dal quadrato e darsi al “popolo” – vedi già la festa di piazza – ovvero alla farsa, al melodramma berciante, alla pantomima. Peccato, se la “gestione” degli immigrati, seppur moralistica e pleonastica, poteva essere diegeticamente addebitata alla “mostruosità” di Marianne rinchiusa nella sua torre d’avorio – ma quanto è più genuino e rivelatore l’incontro di Paul e Penelope con i migranti? -, al contrario, tutto ciò che tocca il maresciallo muore. Non, non i personaggi, il film.

Infine, ci chiediamo, un produttore come Harry che avrebbe detto a Luca di questo quinto quinto disgraziato? Sipario. Pardon, piscina.