Il figlio di Hamas - The Green Prince

The Green Prince

3.5/5
L’amicizia fra un agente ebreo e un informatore palestinese: il doc di Schirman cerca una scintilla d'umanità in mezzo all'odio

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GERMANIA 2014
La storia vera di Mosab Hassan Yousef, figlio di un leader di Hamas e diventato uno dei più preziosi informatori dell'intelligence israeliana, e dell'agente dello Shin Bet che ha rischiato la sua carriera per proteggerlo. Cresciuto in Palestina, da adolescente Mosab Hassan Yousef sviluppa un'avversione nei confronti di Israele che, da ultimo, lo porta in prigione. Qui, colpito dalla brutalità di Hamas e spinto dalla repulsione per i metodi del gruppo - in particolare gli attentati suicidi - Mosab matura una "conversione" inaspettata, iniziando a vedere in Hamas un problema, non una soluzione. Reclutato dallo Shin Bet (il servizio di sicurezza interna d'Israele) col nome in codice di "Green Prince", per oltre un decennio spia dall'interno l'élite di Hamas, rischiando la vita e facendo i conti con la sensazione di tradire il suo popolo e la sua stessa famiglia. Nel tempo, il rapporto tra Mosab e il suo referente allo Shin Bet, Gonen Ben Yitzhak, si fa sempre più leale. Una lealtà che nessuno avrebbe potuto immaginare. Il documentario illustra un mondo complesso fatto di terrore, inganno, e scelte impossibili e fa luce - attraverso testimonianze dirette, sequenze drammatiche e rari materiali d'archivio - su decenni di segreti, raccontando una profonda amicizia e rimettendo in discussione molto di quanto crediamo di sapere sul conflitto israelo-palestinese.
SCHEDA FILM

Regia: Nadav Schirman

Attori: Mosab Hassan Yousef - Se stesso, Gonen Ben Yitzhak, Sheikh Hassan Yousef - Se stesso

Soggetto: Mosab Hassan Yousef - libro

Sceneggiatura: Nadav Schirman

Fotografia: Hans Fromm, Hans Funck, Giora Bejach, Raz Degan

Musiche: Max Richter

Montaggio: Joëlle Alexis, Sanjeev Hathiramani

Scenografia: Yoël Herzberg

Costumi: Chen Gilad

Altri titoli:

Ha'nasikh ha'yarok

Son of Hamas

Durata: 95

Colore: C

Genere: DOCUMENTARIO

Tratto da: libro "Figlio di Hamas" di Mosab Hassan Yousef in collaborazione con Ron Brackin (ed. Gremese)

Produzione: JOHN BATTSEK, SIMON CHINN, NADAV SCHIRMAN PER A LIST FILMS, UZRAD PRODUCTIONS, PASSION PICTURES, RED BOX FILMS, TELEPOOL

Distribuzione: WANTED (2015)

Data uscita: 2015-04-23

TRAILER
CRITICA
"(...) non avevamo ancora visto un documentario raccontare il legame paradossale e fortissimo che stringe in un unico, miracoloso nodo, il figlio di un capo di Hamas e un agente reclutatore dello Shin Bet, l'Fbi israeliano. (...) una partita a scacchi continua e sfibrante che ha come posta la salvezza dei rispettivi popoli (...). Non a caso il palestinese Mosab e l'israeliano Gonen, che con le loro testimonianze si dividono 'Il figlio di Hamas', per la quasi totalità del film non condividono mai la stessa inquadratura. Come se l'idea stessa di vederli apparire insieme fosse un affronto. Eppure proprio lì, come scopriremo, va a parare questo folgorante thriller 'dal vero' che ricostruisce una storia incredibile incrociando immagini d'archivio, testimonianze e ricostruzioni stile docu-drama. (...) un rapporto che abbraccia più di un decennio in un susseguirsi di azioni incredibili che contrariamente al solito devasteranno la vita ma non la morale e l'identità dell'informatore, facendone piuttosto il militante unico di una causa inconfessabile. Fino a quell'epilogo lontano dalla Terra Santa, da non anticipare, che darà il senso finale di questa incredibile spy story. Un grande film, anche sul piano psicologico (tutto passa sempre attraverso il rapporto di un figlio col padre), davvero da non perdere." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 23 aprile 2015)

"(...) basato sulle interviste parallele dei due protagonisti, mette l'accento sulla loro vicenda esistenziale, sulla reciproca testimonianza di lealtà e solidarietà umana, e sul tormentato percorso che in nome di questa ciascuno vive verso la propria parte. Curiosità: a firmare la fotografia è Raz Degan, che ha conquistato una candidatura a Camerimage." (Paolo D'Agostini, 'La Repubblica', 23 aprile 2015)

"(...) è uno di quei film che creano problema e non in senso buono. La storia è di quelle che, per quanto «vere», dichiarate come tali in forme sensazionalistiche, lasciano nella testa dello spettatore più dubbi di quanti non ne risolvano. E anche questo in un senso per niente positivo. La storia appartiene al novero dei racconti edificanti che piacciono agli occidentali che del conflitto arabo-israeliano sanno poco o niente e alla parola «palestinese» reagiscono sempre un tantino infastiditi. (...) l'approccio del regista alla vicenda che mette in scena, in termini squisitamente filmici, banalizza a sua volta terribilmente tutte le questioni sul tavolo delle discussione che riguarda il dibattito sul «reale». Basato sul bestseller di Mosab Hassan Yousef, il film è una sorta di paradossale reinvenzione della parabola del figliol prodigo, dove il padre cui si ritorna è rappresentato dall'agente Gonen Ben Yitzak, uomo di riferimento allo Shin Bet (...). Il «tradimento» come prezzo del ritorno, in sé un soggetto estremamente interessante, si compie ai danni del cinema stesso. Il film si presenta come autentico - e non «re-enacted» ossia re-interpretato - come una successione implacabile di teste parlanti in un montaggio parallelo tanto prevedibile quanto stancante. Solo a metà film circa lo spettatore inconsapevole si rende conto, attraverso l'inserzione di materiale d'archivio, che coloro che parlano in macchina non corrispondono ai corpi che si vedono nei filmati d'epoca. Niente di male in tutto ciò, se almeno il procedimento fosse dichiarato come tale, come finzione scenica, dall'inizio. Invece, attirare la sospensione dell'incredulità dello spettatore, senza intavolare con lui un contratto che lo spettatore possa accettare o rifiutare, è una strategia narrativa alquanto discutibile. A dir poco. Anche il tradimento, o il rovesciamento delle attese, necessita di una strategia del tradimento stesso. In tutto questo l'aspetto più problematico è il discorso stesso del film che si presenta come apologo dell'amicizia in grado di scavalcare barriere, fedi e ideologie. E in questo caso anche le regole etiche e morali non scritte del cinema del reale. In questa banalizzazione delle complessità in campo, che non risparmia né gli israeliani né Hamas (e non si tratta di fare sconti o dare per qualcuno), il conflitto è ridotto alle dimensioni di un romanzo d'appendice alla fine del quale una conversione negli Stati uniti pone l'inevitabile sigillo di un ecumenismo a-storico che frettolosamente passa un colpo di spugna su milioni e milioni di parole e ferite, morti e speranza." (Giona A. Nazzaro, 'Il Manifesto', 23 aprile 2015)

"Piacerà. Non a tutti perché molti probabilmente anche in Italia considerano Mosab un traditore rinnegato. A noi sì perché il film la sua storia (per certi versi esemplare) la racconta molto bene. E ci fa sperare che al mondo esistano altri cento, duecento Mosab." (Giorgio Carbone, 'Libero', 23 aprile 2015)

"Il grande gioco dello spionaggio è un lungo corridoio-labirinto dove l'inganno e il riflesso degli specchi deformanti non lasciano aperte troppe via di fuga confondendo l'apparenza con la realtà e l'amico con il nemico. È il palcoscenico angoscioso per qualsiasi trasformazione, il perfetto terreno di cultura per l'allevamento, la formazione e la messa in campo delle 'talpe', ovvero gli infiltrati che godono di un ruolo di rilievo dall'altra parte della barricata e, invece, sorreggono d'informazioni segrete la causa di chi dovrebbero combattere. E questi virtuosi del 'salto della quaglia' a volte possiedono un'identità clamorosa. Come un palestinese, allevato nell'odio per 'l'invasore sionista', che accetta di essere reclutato e di lavorare per Israele. Perché? La risposta è nelle sequenze dello splendido documentario "II figlio di Hamas" (...) un docu-thriller politico che, tra immagini di repertorio amatoriale, riprese dei droni e piccole recite di finzione, probabilmente si guadagna un posto d'onore nella filmografia dedicata allo spionaggio perché sa, come un romanzo del miglior John le Carré, interpretarne l'anima e la morale, cogliere la cognizione del dolore e dei complessi di colpa, illustrarne la frustrante ambiguità quotidiana, nervosa e di coscienza secondo una metodologia per la quale si è costretti, ogni secondo, a mentire anche a chi si ama e si rispetta. Raramente sullo schermo è passata, con la stessa forza affidata in massima parte alle parole dei protagonisti e alla loro gestualità, una lezione sull'intima essenza dell'arte impervia e, a suo modo, perversa del 'maschere e pugnali', in cui le prime, indossate e inchiodate sulla pelle, fanno più male dei colpi di una lama. Vergogna e orgoglio, lacrime e patimenti sono il retaggio di Mosab Hassan Yousef, la spia che è rimasta sempre 'al freddo' anche quando abbracciava e baciava mamma e papa. Un principe che nessuno invidia. Tra Intifada e Stella di David. Questo è il Monopoli dell'intelligence. Volete giocare?" (Natalino Bruzzone, 'Il secolo XIX', 20 aprile 2015)