Se la fragilità, come scriveva Simone Weil, "è il segno più certo dell'esistenza", allora ogni gesto compiuto da Massimo Troisi è da intendersi come un irrelativo, struggente tributo alla vita. Del Troisi uomo e del Troisi artista, dico, perché per quanto dicesse che il cinema non occupava più del 40% della sua vita, la finzione è stata sempre dolcemente riassorbita da una tremolante, vivissima naturalezza. Si dava sette come attore e tre come regista, l'iperautocritico Troisi, ma le due cose in fondo finivano sempre col coincidere, visto che il dirigere altro non era se non il completamento del recitare, al punto dal condizionare con la sua sola presenza anche i film - i pochi film - diretti da altri; prerogativa, questa, che lo accomunava all'unico altro "introverso" dei nostri schermi, Nanni Moretti. Ma Moretti e Troisi sono, erano speculari: là dove il primo censura, taglia, moraleggia, si dichiara, in una parola "chiude", il secondo si ritrae, e quindi "apre", apre a una macchina da presa davanti alla quale non scandisce sillabe esatte, non pronuncia convinte, compiaciute battute (esistono forse le "battute" di Troisi?) ma, grazie ad una lingua fatta di parole sbriciolate, ad un comportamento animato da gesti incerti e sospesi, da sguardi incantati mostra -quasi fosse colto da continua, irrefrenabile sorpresa- paure, ossessioni fisiche del vivere, coniugando insostenibilità tutte contemporanee e popolanità antica (si spiega così, mi sembra, perché Troisi, a differenza dell'"attualissimo" Moretti, riusciva a essere a suo agio in ogni tempo, in ogni luogo della finzione: storico il tempo di Moretti, cosmico quello di Troisi). Con l'ultimo dei suoi film, Il postino, Massimo Troisi ci ha lasciato il più lucido degli autoritratti che un autore ci possa lasciare. Mario Ruoppolo infatti è più che un alter ego, è un felice prestito alla realtà di celluloide  dell'uomo, dell'artista Troisi. Perché tutto il suo cinema è stato in presa diretta, proprio come i suoni della natura registrati dal giovane postino rimasto solo sull'isola dopo la partenza di Neruda: non ha "imparato" la poesia, ma ha trovato la strada per esprimerla. Lui non ha mai avuto paura di mostrare la sua congenita, strutturale fragilità; non solo, è su quella che ha costruito -ma sarebbe più giusto dire "appoggiato"- i suoi personaggi: una fragilità non superficiale ma pensosa, restituita su un doppio e apparentemente contraddittorio registro, fisico e verbale: le afasie, le discontinuità lessicali altro non erano infatti che il riflesso tangibile e più evidente di una vita vissuta attraverso un esemplare riserbo, ma anche con una leggerezza senza pari, per cui essere e mettersi in scena diventavano la stessa cosa. Come ricordava anche un personaggio di un film di Tarkovskij (un altro autore scomparso, oggi incredibilmente, colpevomente dimenticato) le idee geniali sono sempre semplici. Ecco, Troisi ha fatto della genialità espressiva il suo più peculiare segno espressivo, invadendo praticamente ogni sequenza, se non ogni fotogramma, con la sua disarmante, imbarazzata riservatezza, con la sua acutissima intelligenza: un antidoto non so quanto involontario ma certo invincibile alle incertezze della vita, di quella vita da cui troppo presto è uscito di scena.