“Le avventure di un giovane i cui principali interessi sono lo stupro, l'ultra-violenza e Beethoven”. Mai tagline fu più esplicita, più sconvolgente, più duratura: Arancia meccanica (A Clockwork Orange) arrivò sugli schermi nel '71, e il cinema, almeno certo cinema, non fu più uguale. Quanti, tra epigoni e cultori, geni (in tono decisamente minore) e copioni, quell'arancia l'hanno spremuta, sorbita e invano provato a imitarla, manco fosse Coca-Cola?
No, era Lattepiù, e che celasse quel segno di addizione ce lo disse lo stesso Kubrick, già affezionato agli ordigni Fine di Mondo: “L'uomo deve poter scegliere tra bene e male, anche se sceglie il male. Se gli viene tolta questa scelta egli non è più un uomo, ma un'arancia meccanica”.
Non ditelo al buon Alexander DeLarge, a cui il contenimento della violenza tolse, meccanicamente tolse, perfino il battito delle ciglia: la famigerata cura Ludovico, che Stanley ci rifilò per metterci al corrente di un altro, più infido e artistico vulnus. La pop art per spia scoperta - proprio in quel fare di vox pop(uli) vox Dei (l'Autore demiurgo) - e poi le parole di Achille Bonito Oliva a mettere l'occhio nella piaga estetica: “Kubrick profetizza anche la pericolosità di una violenza “estetizzante”, anzi, la rappresenta, ce la mette sotto gli occhi, utilizzando la Nona di Beethoven e Rossini: una violenza a ritmo di musica”. Che il grande schermo ci riconsegnò grande e angolare come una pietra scartata dai costruttori di immagini e suoni: il grandangolo, iterato e tirato alle estreme conseguenze, non per deformare la realtà, ma per stigmatizzarne l'iperrealtà già fatta quotidiano, il Formicaio elevato a categoria esistenziale, guerra a parte.
E quante di quelle formiche uscite dall'Arancia ancora percorrono i nostri schermi? Hanno preso traiettorie schizzate ma, infine, convergenti nel “genere supereroico”, che nella mise (en abyme) dei Drughi avrebbe trovato il modello per calzamaglie di tutte le fogge. D'accordo con Kubrick, la costumista Milena Canonero optò per un incrocio tra la divisa di un poliziotto e quella di un supereroe malato: un bianco abbacinante, nutriente come il latte e mortuario come le maschere di altre latitudini, lindo e asettico, immacolato e nazista, come prima solo nelle orde “sacre” dell'Aleksandr Nevskij.
Davvero, un film sinistramente multivitaminico, che riequilibrò la dieta progressista e, in effetti, ottimista del '68: arte-vita sensuale e sessista (di fallo qui si muore, nel libro di Burgess a colpire era il busto di Beethoven), pre-punk e post-reazionaria, comunque laicissima, tutta giocata nella società dello spettacolo del capocomico Alex. Così potente, che a sentire Singin' in the rain oggi non viene in mente Gene Kelly, ma la (ri)partitura a calci e bastonate dei Drughi, scandalosa sinfonia di egotismo animale e iniziativa privata, musical sottratto alla politica del sottotesto hollywoodiano e reificato dal genio ultrapolitico di Kubrick.
In altre parole, “piacere impiacentito e divenuto carne” di cinema. Tra poco, l'Arancia meccanica la ritroveremo restaurata a Cannes: proiezione il 19 maggio, alla presenza di Malcolm McDowell che il giorno seguente alle 14 terrà una Masterclass. 40 anni (dopo), e non sentirli.