Dall’11 agosto al 7 settembre 2015 presso Spazio Oberdan, Fondazione Cineteca Italiana presenta OMAGGIO A KENJI MIZOGUCHI, retrospettiva di sei tra i maggiori capolavori di quello che è ricordato, insieme a Yasujiro Ozu e Akira Kurosawa, come il più grande cineasta giapponese.

Kenji Mizoguchi nasce alla fine del XIX secolo a Tokyo, in una famiglia così povera da essere costretta a vendere la sorella come geisha, fatto che doveva influenzare profondamente il futuro regista, celebre soprattutto per i suoi sofferti e tragici ritratti di donne ed emarginati. Questa sua sensibilità viene affinata anche dagli studi pittorici e di costume, tanto che per un periodo Mizoguchi disegna kimono.

L’approdo al cinema avviene negli anni Venti come assistente alla Nikkatsu, celebre casa di produzione giapponese. L’esordio come regista risale al 1923, e da allora Mizoguchi gira più di novanta film, dei quali solo gli ultimi divengono noti al pubblico occidentale, dopo che il Leone d’Oro a Rashomon di Kurosawa (1950) fa conoscere in Europa il cinema giapponese. E proprio a Venezia Mizoguchi vinse per tre volte il Leone d’Argento per la miglior regia. Negli anni Cinquanta, prima della morte per leucemia (1956), il cineasta di Tokyo realizza i suoi più noti capolavori, tra i quali i sei film proposti nella rassegna.

Di Mizoguchi si sono dette molte cose: tra queste che è stato il primo regista femminista della storia del cinema. E i ritratti di donne al limite, spinte dagli eventi e dalla crudeltà di una società patriarcale e rigida come quella giapponese ai margini della società, sono i contenuti principali delle opere del regista. Mizoguchi trovò nell’interpretazione elegante e sofferta di Kinuyo Tanaka una musa che lo portò a realizzare capolavori come La signora Oyū (1951), ritratto di una donna combattuta tra tradizione e passione; Vita di O-Haru, donna galante (1952), tragica storia di una geisha che, spinta sull’orlo della disperazione, trova serenità nella vita religiosa; I racconti della luna pallida d’agosto (1953), storia di ossessione e fantasmi sottilmente inquietante; e L’intendente Sanshō (1954), su un brutale funzionario del Giappone feudale che fa schiavi due fanciulli rendendo pazza la madre. Sono tutti ritratti di un Giappone antico e attaccato maniacalmente alle sue tradizioni, mentre cerca di nascondere con fatica la propria crudeltà e ipocrisia, come nel caso di Ritratto della signora Yuki (1950).

Ma Mizoguchi è stato anche capace di ritrarre le contraddizioni del Giappone contemporaneo in La strada della vergogna (1956), ultimo capolavoro prima della morte: non ci sono più geishe, ma prostitute, eppure avvertiamo che la storia non cambia: i deboli, gli emarginati, saranno sempre al gradino più basso della scala sociale, e ogni tentativo di risalita verrà frustrato da una burocrazia spietata che si maschera dietro il velo ipocrita del buon gusto.