L’Ulivo d’Oro è il premio che assegna il Festival del Cinema Europeo di Lecce. Valerio Mastandrea, primo dei protagonisti di quello italiano, lo ritira questa sera, prima della proiezione di Fai bei sogni di Marco Bellocchio. Non sapeva nulla di questo ulivo, fino ad oggi. “Mi danno un premio alla carriera: perché è finita? Ma sono contento che sia proprio un ulivo, che per la Puglia è la massima espressione di attaccamento alla propria terra. Ha un valore simbolico forte, richiama le lotte sul proprio territorio, quel luogo che io considero l’ultima frontiera per recuperare il senso di appartenenza, che non significa chiudersi agli altri”.

Visto che parla di carriera, vuole trarre un bilancio?

“Non è ricco di riflessioni, ma di paturnie. Ci ho pensato spesso, negli ultimi anni. Ho sempre fatto questo mestiere da quando ne avevo venti e mi ha regalato un sacco di esperienze, un sacco di momenti, belli e brutti. Ma mi fa un po’ schifo parlare così, del tempo che è andato e delle esperienze fatte. La parola carriera mi fa ragionare come uno di ottant’anni, ma io ne ho esattamente la metà. Però ho sempre fatto quello che mi andava di fare, ho sbagliato moltissimi film, e sono contento di averli sbagliati, non perché siano andati male al botteghino, ma per la scelta come attore e come persona. Negli ultimi anni mi sono imposto di non perdere la curiosità, di non far diventare il mio mestiere routine. Pratica, non emotiva, che è diverso. E poi la bellezza di questo mestiere è proprio l’invenzione costante. Nel momento in cui non ti sorprendi più, lì per me finisce il principio attivo di questa medicina che è il cinema. E scusatemi la metafora medica”.

Allora guardiamo al futuro prossimo: l’esordio come regista di un lungometraggio.

“Per non rimanere fermi nel proprio mestiere. Che faccio? Continuo a fare film, dove ti pagano di più, ti pagano di meno perché sono d’autore, prendi un premio: che senso ha? Sono luoghi comuni di una carriera. Comincio a girare il 9 maggio, vicino a Roma. Sono anche produttore, insieme ai ragazzi di Kimera. Chiedere denaro significa dichiarare guerra, poi c’è da combatterla. Siamo un po’ in ritardo sul casting, c’è una protagonista di vent’anni, ancora non vi dico chi è. Si intitola Ride. È un film che mi riguarda tantissimo. Mi sto accorgendo che fare l’attore come l’ho fatto io e partecipare a dei casting da attore è l’incubo maggiore che possa capitare a un essere umano che fa questo mestiere. Ho me stesso come parametro e questo mi sta aiutando moltissimo. È anche bellissimo, comunque, la delega che ti fanno gli attori, vederli lavorare dall’altra parte. Vediamo che succede”.

Molti dei suoi film sono ambientati nelle periferie, nelle borgate. C’è più storia lì?

“Sicuramente è un contesto in cui i sentimenti e le emozioni principali magari sono meno filtrate e veicolate da finti modi di essere. Almeno io la vedo così. Sono i contesti in cui è più facile essere se stessi e proprio per questo è difficile sopravvivere. Sono luoghi dell’anima dove sei chi sei. Non vorrei nemmeno dire però che non si possano trovare storie di emozioni anche in ambienti più benestanti”.

Bellocchio ha dichiarato di averla scelta per la sua tristezza, che esprime quando fa ridere.

“Lo ha detto a Cannes. Forse ha ragione lui, forse sono veramente così, visto che il mio film si intitola Ride. Cerco di ridere finché posso in una situazione piuttosto tragica. Mi sento uno che fa della malinconia un vincolo, me la porto dietro da ragazzino”.

David di Donatello: fonte di delusione?

“Ebbene sì. La delusione lo scorso anno è stata molta. Tutto ciò che riguardava Non essere cattivo è arrivato secondo.  È stata una rosicata vera. È stata l’ennesima esaltazione del carattere di Claudio Caligari: essere importanti anche in una posizione sfavorevole. Quest’anno delusione no, sarebbe stato veramente eccessivo. Sono stato contento che Accorsi fosse molto contento”.

Alcuni attori italiani ce la fanno, ad andare a Hollywood.

“Secondo lei, solo guardandomi, io posso averlo cercato, lo sbocco oltreoceano? Io ho girato un film d’azione francese, Nido di vespe di Siri, rovinandone la credibilità; uno americano, Nine di Marshall, in cui Daniel Day-Lewis era in vena di sfottermi; e uno inglese, Meredith di Winterbottom. Ma non li ho mai visti, non ce l’ho mai fatta! E non per falsa modestia. Sono incapace di lavorare con gli americani, ma non per la lingua. Penso che per il tipo di attore che sono non ci sia proprio posto per me in quella fabbrica di attori-mostri, ossia di interpreti veri. Non ci voglio proprio andare, in America”.

Vorrebbe chiudere con un aneddoto, vero?

“Divertente, si ricollega a quanto ho detto prima. Spike Lee fa i provini per il film che ha girato in Italia, Miracolo a Sant’Anna. Studio la parte. Riesco ad andarci. Lo faccio, come posso farlo io. E lui mi fa: “Ok, adesso però alza la voce, questa rabbia la devi tirare fuori”. Gli rispondo: “No, io la rabbia, per un personaggio così la faccio da dentro”. Lui mi guarda sconvolto: “Ma che sta dicendo questo?”. Ho visto la sua faccia, sembrava proprio come uno di Roma che dice: “Be, fa un po’ come te pare”. Poi il film l’ha fatto Favino, capace di fare qualsiasi cosa”.