Un premio significativo, senz'altro: "Siamo cresciuti con i film di Robert Bresson, quando ancora non sapevamo che avremmo fatto cinema. La sua opera ha formato il nostro sguardo". Loro sono Luc e Jean-Pierre Dardenne, e non hanno bisogno di ulteriori presentazioni. Sbarcano al Lido per la prima volta ("Ci piacerebbe portare i nostri film sia a Cannes che a Venezia, ma ci dicono che non si può", scherzano) e forse un giorno vi porteranno anche un loro film. Oggi basta un riconoscimento, il Premio Bresson della Fondazione Ente dello Spettacolo, dodicesima edizione. I Dardenne lo vincono l'anno dopo Haroun, ma a loro si pensava da tempo, come ricorda Dario E. Viganò (Presidente della Fondazione), perchè "sintonici" all'opera del grande cineasta francese, da cui hanno imparato "l'attenzione per il dettaglio e il modo di economizzare il lavoro". Dubitano però che la stima varrebbe anche al contrario: "Probabilmente se oggi vedesse uno dei nostri film - azzarda Luc - direbbe che facciamo teatro".
Tanto austeri e dolorosi i loro film, quanto generosi e sorridenti loro, attesi da anni alla prova della commedia: "Il ragazzo con la bicicletta non era proprio una commedia, ma c'era molto sole - dice Jean-Pierre -. Lo abbiamo detto, lo continueremo a dire, che faremo una commedia. Ma forse non la faremo mai. Non siamo noi a scegliere le cose, ma sono loro a scegliere noi. E' un genere molto lontano da noi, ma se mai ne facessimo una, la vorremmo fare con Moretti protagonista". Moretti è tra i registi italiani che i Dardenne seguono spesso. Un altro è Bellocchio. Poi vedono molto cinema del passato, da Kieslowski a Fellini a Pasolini. E a proposito di Pasolini, i Dardenne ricordano come Il vangelo secondo Matteo sia il punto di riferimento più alto per quanto riguarda i film su Gesù, e un ottimo deterrente per non farne un altro: "Ci abbiamo pensato, sarebbe bello confrontarci con la figura di Cristo. Ma dopo Pasolini, cosa potremmo dire di più?". Eppure la cultura cattolica, con la "sua attenzione verso la sofferenza umana - riprende Luc - è molto presente nei nostri film. Diciamo meglio: tutte le religioni del Libro, interessandosi all'essere umano nella sua fragilità, possono essere accostate al nostro lavoro".
Nulla dicono sul loro prossimo progetto ("Come nella musica, anche nel cinema bisogna che le cose rimangono segrete"), quanto al loro modo di lavorare e di affrontare il cinema, chiariscono: "Un film non giudica, non è un tribunale. Noi mostriamo. Punto. E amiamo tutti i personaggi, dall'assassino alla vittima". Aggiungono: "Non è attraverso delle immagini che si riesce a filmare la vita. Fare un film significa cercare di non realizzare immagini: perché le immagini intrappolano le cose, intrappolano gli oggetti, intrappolano i corpi degli attori" E allora come si fa il cinema? "Il paradosso – concludono - è che le immagini vanno realizzate, è necessario.Ma in modo tale da non ridurle a stereotipi, caricature, perché l'immagine stereotipata seduce e uccide".