Forse avrebbe sfoderato ancora il suo ironico sorriso guardando al mondo e al cinema di oggi; forse non avrebbe mai realizzato, come tanti speravano, un altro film in coppia con il suo amico Redford; ma sicuramente non avrebbe perso il suo spirito, la sua anima liberal, che lo accomunava al compagno di avventure cinematografiche. Paul Newman avrebbe compiuto 90 anni il 26 gennaio e invece se n'è andato 7 anni fa, lasciando un patrimonio artistico e umano che ne cristallizza il ricordo, facendo quasi dimenticare che non ci sia più.

Eppure, quella voce beffarda, quello sguardo sarcastico di un esponente di una parte di Hollywood che tentava di essere controcorrente, mai scontata, impegnata anche nei più piccoli o meno noti ruoli (che sarebbe interessante recuperare, così come i film da lui diretti), mancano nel panorama cinematografico odierno; una linearità, una coerenza di visione artistica e di valori, dentro e fuori lo schermo; un'adesione ai personaggi che sposa il “metodo” ma non ne diviene schiava, facendo sentire ancora l'emozione dell'artista che traspare nel personaggio e facendo emergere l'attore e non la star: Newman ha saputo, in mezzo secolo di carriera, essere e rappresentare tutto questo. Oltre l'aspetto fisico, oltre i famosi occhi azzurri, oltre gli stereotipi divistici, oltre il piccolo e grande schermo. Manca un Nick mano fredda, personaggio intenso e di denuncia; manca un Frank Galvin de Il verdetto, forse il suo migliore ruolo, un avvocato che decide di raddrizzare nuovamente la schiena e che, con la sua arringa finale, dà la linea di una moralità che sembra fare del personaggio e dell'attore una cosa sola; manca il dolente protagonista di Bronx, 51° distretto di polizia, un ruolo dietro il quale nascondere il dolore per la perdita di un figlio; manca la forza di Diritto di cronaca, in cui si analizza con lucidità il mondo del giornalismo ben prima di The Newsroom; manca anche il sornione de La stangata e la realtà di Butch Cassidy, l'insolito di Mister Hula Hoop, che di Newman rivelò ancora una volta la capacità di mettersi sempre in gioco, anche da “non più giovane”; manca lo stile autoriale di Mr. e Mrs Bridge, o, andando indietro nel tempo, de La gatta sul tetto che scotta, La lunga estate calda, La dolce ala della giovinezza; manca la tempra, il coraggio, la forza dello Spaccone, quello in bianco e nero e quello che ritorna, sotto la sapiente direzione di Scorsese, a “mangiarsi” di nuovo lo schermo, ancora una volta accanto ad una giovane scoperta, come Tom Cruise, cui fare da mentore.

E manca soprattutto quel modo irriverente di raccontare il suo sguardo sul mondo mediandolo attraverso personaggi che, sul finire della carriera, sembravano quasi rappresentarlo: anziani saggi mascherati da uomini ai margini, a metà tra follia e menefreghismo, sublimati dal suo ultimo ruolo, quello del padre nella mini serie tv Empire falls. Una visione malinconica, ma specchio della grandezza, fatta di pochi, piccoli gesti.