Harry Hole, l’investigatore nato dalla penna di Jo Nesbø, fa parte di una riconoscibilissima schiatta di detective, quelli con il malessere dentro. Genia dei Marlowe più che degli Sherlock Holmes, per intenderci. Testimoni piuttosto che investigatori della catastrofe morale. Disincantati prima ancora che lucidi.

La prossimità psicologica e fisica con l’altro da sé che indagano, specchio deforme e psicotico della loro umanità sofferente e lacerata, li rende ambigui, inclini al vizio, trasandati. Se volessimo tracciarne un identikit dovremmo unire idealmente la veste morale di Marlowe agli abiti sdruciti di Colombo. Negli occhi i demoni di un Somerset (Seven) o di un Dormer (Insomnia).

Harry è anche il contraltare analogico al Mikael Blomqvist di Stieg Larsson (saga Millennium), entrambi radicati nel milieu nordico (l’uno norvegese, l’altro svedese), dove più stridente è il contrasto tra l’ordine di superficie e il caos di sotto. Figure investigative dal temperamento gelido e il fegato spappolato, entrambi con un passato che per uno è tormento e per l’altro memoria, archivio. Il primo è un classico private-eye, costretto a misurarsi con killer seriali e altre aberrazioni psichiche dentro una cornice di delittuosità morbosa e domestica; il secondo, reporter che non disdegna l’azione, si misura con un sistema di collusioni criminali che tocca le alte sfere e che richiede metodi di investigazione più moderni, centrati su un sofisticato know-how tecnologico e un sapere algoritmico.

Due modelli alternativi che esprimono il duplice paradigma con cui si è misurata la detection lungo la sua fortunata storia letteraria e cinematografica. In principio fu Auguste Dupin, quello de I delitti della via Morgue di Poe (1841), il padre di tutti gli investigatori che usano le cellule grigie per ristabilire un principio d’ordine nel mondo. Da Sherlock Holmes ad Hercule Poirot, è tutta un’esibizione di deduzione logica e intelligenza da scacchista, contro assassini che si divertono a mettere in dubbio la natura razionale del reale. Siamo in pieno clima neo-positivista, fiducia cieca nei confronti della ragione. Il detective ne è, per così dire, l’alfiere, l’eroe hegeliano, l’accordatore a chiamata di un mondo qua e là stonato. È solo dopo la prima guerra mondiale e con l’incontrollato processo di crescita della metropoli - culminato con l’esplosione negli anni ’40 del noir e della gangster-story - che questo modello entra in crisi a favore di un’idea di mondo meno rassicurante e una scienza investigativa più dimessa, incarnata o meglio disincarnata nella figura del Private Eye che “scruta” con orrore una realtà distante, difficile da decifrare.

Omne ignotum pro magnifico, la massima tacitiana fatta propria da Holmes, si dissolve nel moderno orrore per tutto ciò che di ignoto c’è là fuori. I libri di Dashiell Hammett e di Raymond Chandler sono i testi seminale per la detective story moderna, cui si rifaranno, più o meno dichiaratamente, autori come Hawks, Huston, Welles, Kurosawa e Polanski. Il metodo razionale e il profilo esistenziale del detective continueranno a coabitare a lungo, attraversando le cesure paranoidi e nostalgiche della guerra fredda, fino all’apparizione, tra gli anni ’80 e ’90, di indagatori del paranormale come Dale Cooper (Twin Peaks) e Fox Mulder (X-Files), e al ritorno, accanto alla malinconia del detective dal retrogusto postmoderno, di uno spirito di restaurazione ultra-positivista, dal forte expertise tecnico: la generazione dei profiler e dei cacciatori di dna (modello Criminal Minds e C.S.I.).

Il vecchio investigatore privato declina in rappresentazioni folkloriche e bonarie da serial europei alla Commissario Montalbano. Mentre il cinema d’autore, tanto quello mainstream alla Fincher (Seven, Zodiac) quanto quello europeo, accetta di confrontarsi con un panorama dominato dalla proliferazione disordinata di immagini che sono solo simulacri di mondo, segni, per dirla con il Žižek di Benvenuti nel deserto del reale, che denunciano una “mancanza di verità letterale” e aprono alla vertigine dell’infinita possibilità. Uno scenario complesso e ricco di insidie, in cui la detection perde la sua capacità di disvelamento per riqualificarsi come tentativo di conquista di uno sguardo sul mondo: unica oasi possibile nel deserto del reale, o forse un’altra delle sue tante allucinazioni.