Quest'anno l'Oscar alla carriera è stato assegnato a due registi. Uno ha suscitato indifferenza; clamori l'altro. La diversa eco non è dovuta a una differenza di "statura" artistica. Senza dubbio Norman Jewison, onesto artigiano di cui si ricorda con rispetto La calda notte dell'ispettore Tibbs (1967) e con simpatia Il violinista sul tetto, 1971, e Jesus Christ Superstar, '73, non vale Elia Kazan. Il contributo nel teatro e nel cinema del regista di origine greca che i genitori per sfuggire all'oppressione turca avevano portato in America all'età di quattro anni resta fondamentale fra gli anni quaranta e i sessanta. Film come Boomerang, l'arma che uccide (1947), Un tram che si chiama Desiderio (1951), Fronte del porto (1954), La valle dell'Eden (1955), Un volto nella folla (1957), Splendore nell'erba (1961), Il ribelle dell'Anatolia (1963) sono tutti di riferimento per chi voglia ripercorrere la storia del cinema hollywoodiano nel cui ambito sia Jewison che Kazan si collocano. Le rimostranze riguardavano non tanto l'opera quanto la vita di Kazan; e si riferivano a due deposizioni da lui rese davanti a una Commissione governativa nel 1952. Gli oppositori ' a dire il vero poco informati su quello che era accaduto a suo tempo (almeno a stare ai documenti) ' hanno dipinto Kazan come il Grande Delatore, l'uomo che aveva tradito i compagni per timore di danneggiare la sua carriera. Scorsese e De Niro ' cineasti non certo di destra ' hanno affiancato il novantenne regista nel ritiro dell'Oscar; e Warren Beatty, anche lui non proprio un antidemocratico, ha invitato a riesaminare un capitolo oscuro della società nordamericana. Cosa che, qui, si è voluto fare sulla traccia dei documenti raccolti in Lista nera a Hollywood. La caccia alle streghe negli anni '50 (Feltrinelli, Milano 1979) di Giuliana Muscio, studiosa seria ma non favorevole alle posizioni assunte da Kazan. A p. 7 del suo libro, infatti, scrive: "L'Urss realizzò nell'Europa orientale l'assetto politico che le garantiva il controllo della zona, sostenendo partiti che non rispondevano all'idea di democrazia nutrita da Inghilterra e Usa". E basti questa citazione a dimostrare che ciò che veniva concesso a una parte ' il sostegno sovietico ai "partiti fratelli" non fu indolore come riconosce ormai ogni studioso ' era negato all'altro che, stante la guerra fredda, non poteva non ostacolare i simpatizzanti dei "nemici". La questione da chiarire sta non tanto e non solo nel controllare se le critiche sul modo di gestire la democrazia in America degli accusati di tradimento rientrassero in uno spazio di libertà (il che sembra evidente). E' da chiedersi semmai perché si sia inventato dal niente un pericolo inesistente (la storia successiva sarà ricca di episodi del genere).

A questo punto, per illuminare la cornice entro cui si colloca la "caccia alle streghe", si dovrà precisare che, in seguito al clima instaurato dal New Deal, Hollywood ' secondo quell'andamento ondivago che caratterizza la sua storia ' si era aperta a tematiche democratiche e, negli anni della guerra, a un atteggiamento non sospettoso verso l'alleato sovietico. Il tutto era avvenuto all'interno delle ragioni dell'industria e non aveva superato confini ben precisi (cosa che si verificherà più avanti, ai tempi della guerra in Vietnam). Questa tendenza, del tutto difendibile e mai esaminata ' nonostante le richieste dei cineasti accusati di aver aderito al partito comunista americano ' dalla Commissione per le attività antiamericane, fu avversata al profilarsi della guerra fredda; e i produttori che pur l'avevano favorita corressero la rotta. E, nei tardi anni cinquanta, avviarono una delle più fiacche produzioni del cinema hollywoodiano. Proprio per la fedeltà alle motivazioni sentimentali e morali che lo avevano spinto fra il 1934 e il '36 a iscriversi al partito comunista dal quale si era dissociato dopo il "primo assaggio dei metodi totalitari" Elia Kazan aveva potuto concorrere all'ammodernamento delle tematiche cinematografiche con opere interessanti schierate a favore dei poveri visti come il sale della Un albero cresce a Brooklyn, 1945 e contro il razzismo serpeggiante nella società americana Barriera invisibile, 1947 e Pinky, la negra bianca, 1949. Un passato non rinnegabile da parte di un intellettuale che si considerava un ribelle ma, di sicuro, non un rivoltoso.

Considerati da sempre terra di libertà, nel tardo dopoguerra gli Stati Uniti sembrarono smarrire la loro immagine. Riesplose la paura dei rossi. C'era già stata vent'anni prima in quella felice età del jazz che si era chiusa con il crollo di Wall Street del 1929 e la Depressione. Con il New Deal Delano Roosevelt aveva infuso speranze e attese nel popolo, e la crisi era stata sconfitta. Gli intellettuali si erano posti al suo fianco, durante il secondo conflitto mondiale gli stessi materiali a sostegno della guerra erano venati da una forte volontà di riscatto, da molta fiducia nel futuro. Il presidente era morto poco dopo l'accordo di Yalta che aveva diviso l'Europa in due; da una parte la zona di influenza sovietica dove in poco tempo il partito comunista aveva messo a tacere ogni opposizione e, dall'altra, quella assorbita nell'economia occidentale. L'atomica ' e il timore di perdere il controllo di un sì micidiale strumento, cosa che regolarmente avvenne -, le vicende cinesi, lo stalinismo, il blocco di Berlino, le notizie che arrivavano da oltre la "cortina di ferro" avevano eccitato gli animi. Cominciava la guerra fredda. Certi gruppi si proposero di far piazza pulita di colore che, negli Stati Uniti, avevano mostrato interesse per le teorie comuniste. Sulla base di dossier preparati dall'Fbi la Commissione per le attività americane (Huac), della quale faceva parte Richard Nixon e che era presieduta da Parnell Thomas, andò a cercarli a Hollywood. Durante il New Deal e la guerra l'industria cinematografica ' come si è già detto ' aveva permesso a scrittori e registi di realizzare film impegnati, sul piano civile, graditi dal resto dal gran pubblico.

Le "udienze di Hollywood" cominciarono nell'ottobre del 1947. Si ascoltarono dapprima i "testimoni favorevoli" (una quarantina). Fu poi la volta degli "ostili". Si facevano loro delle domande (per esempio: "E' stato iscritto e lo è tuttora al partito comunista?") e si accettava unicamente il sì o il no. Gli interrogati non ebbero la possibilità di illustrare le scelte che avevano compiuto in anni spesso lontani. Non furono neppure esaminati i documenti (sceneggiature, film, articoli) presentati dalla difesa. Dei diciannove testimoni ostili convocati (fra essi era Bertolt Brecht) ne furono interrogati undici. Dieci si richiamarono al primo emendamento della Petizione dei diritti che "difende la segretezza e la libertà di fede politico-religiosa" e furono condannati per vilipendio a una multa e a un anno di carcere. Erano Alvah Bessie, Herbert Biberman, Lester Cole, Edward Dmytryk, Ring Lardner jr., John Howard Lawson, Albert Maltz, Samuel Ornitz, Adrian Scott e Dalton Trumbo. Molti fra loro gli ebrei; e per i lettori sprovveduti che seguirono con forte partecipazione le udienze ebreo e comunista diventarono sinonimi.

In carcere i dieci furono raggiunti dal presidente Parnell Thomas che era stato condannato per peculato. E, sempre in prigione, il regista Dmytryk ci ripensò, fece dei nomi, venne liberato e riprese il lavoro. Gli altri, intanto, erano finiti nelle "liste nere". Per molti anni i produttori si serviranno sottobanco di sceneggiatori e di registi "compromessi" dei quali si era dimostrata o pareva probabile l'adesione al partito comunista. Alcuni partirono per l'Europa: Joseph Losey, Jules Dassin, John Huston, Orson Welles. A Charlie Chaplin non venne rinnovato il visto di soggiorno. E registi come Abraham Polonsky e Stanley Kramer furono a lungo messi in quarantena.

Nel 1952, con un diverso presidente ma sempre con Nixon, la Commissione per le attività antiamericane riprese l'inchiesta. Stavolta i "testimoni ostili" si appellarono al quinto emendamento della Petizione dei diritti "Non rispondo perché la risposta potrebbe farmi incriminare"; il che equivaleva a un'ammissione di colpa. Convocato dalla commissione nel gennaio del 1952 Kazan ' in una sezione esecutiva segreta ' ammise di essere stato iscritto al partito comunista fra il 1934 e il '36. Ma si rifiutò di fare i nomi di coloro che aveva incontrato durante la sua militanza durata diciannove mesi. Probabilmente venne minacciato. Gli si fece capire che sarebbe finito nella "lista nera". E, avendo anche una gran voglia di spiegarsi, si arrese. Non si comportò da eroe come lo scrittore Dashiell Hammet che, con dignità, accettò le conseguenze di una scelta da lui ritenuta giusta e andò in prigione. Ma Kazan non fu un infame.

Che cosa disse? Lo si sa dai verbali dell'udienza del febbraio 1952 a cui il regista si sottopose pubblicati in appendice alla Lista nera a Hollywood di Giuliana Muscio.

Come aveva mostrato la condanna ai "dieci di Hollywood" che si richiamava al primo o al quinto emendamento non aveva la possibilità di illustrare la propria ideologia, di difendere il proprio passato professionale. Kazan volle spiegare le sue scelte a cominciare dall'iniziale: "In quegli anni, ai miei occhi, non vi era una netta opposizione di interessi nazionali tra gli Stati Uniti e la Russia. Non mi era neppure chiaro che il partito comunista prendesse ordini dal Cremlino e agisse come un'agenzia russa in questo paese. Al contrario, in quel periodo mi sembrava che il partito avesse a cuore la causa dei poveri e dei disoccupati che io vedevo nelle strade intorno a me. Sentii che iscrivendomi avrei potuto aiutarli, avrei combattuto contro Hitler". E così spiegò il suo distacco dal partito: "Non vi era proprio nessuna discussione onesta, ma solo un tentativo di accertarsi che avessimo bevuto ogni frase senza discuterla ('). Ne avevo abbastanza dell'irreggimentazione, abbastanza di sentirmi dire cosa pensare e cosa dire, abbastanza delle loro violazioni abituali delle pratiche della democrazia alle quali io sono abituato. La goccia che fece traboccare il vaso venne quanto mi fu chiesto di esibirmi in una di quelle tipiche scene comuniste in cui si striscia e si ammettono errori". Il capocellula ' del quale Kazan non farà il nome ' gli aveva imposto l'autocritica: non era riuscito a "controllare" il Group Theatre (prima formulazione del futuro Actors Studio). Kazan rifiutò. Gli votarono contro un assaggio della vita in uno stato di polizia e non mi piaceva. Invece di lavorare onestamente per il bene del popolo americano, avevo scoperto di essere stato utilizzato per mettere il potere nelle mani di persone che, individualmente e come gruppo, non potevo che disprezzare". Sono parole dure. Ma non fanno che fotografare comportamenti che, in quegli stessi anni, distinguevano, e con ben più terribili conseguenze, il mondo comunista (chi non ricorda i processi conoscitivi, i lager?).

Sempre nella seconda sezione segreta dell'II aprile 1952 Kazan dimostrò che alcune battaglie a cui aveva preso parte erano sacrosante (per esempio, ottenere "una paga per gli attori nelle settimane in cui si prova per gli spettacolo"); che non aveva da vergognarsi per la collaborazione a "organismi di facciata" (gruppi teatrali o cinematografici); elencò le rappresentazioni e i film che aveva firmato sottolineando di continuo: "Non politico, democratico, umano, tipicamente americano, dimostra esattamente l'opposto di quel che le calunnie comuniste dicono dell'America, ecc.". Tutto il suo lavoro artistico conferma che Kazan si comportò sempre da onesto "liberal" talvolta. Ma non fu mai un pericoloso rivoluzionario o un traditore.

Fece, sì, dei nomi. Ma, prima dell'udienza, avvertì le persone delle quali avrebbe parlato e che, del resto, erano già state "segnalate" da altri testimoni. C'erano, fra esse, funzionari di partito, alcuni morti e, fra i personaggi di una qualche fama, Paula Miller (futura moglie di Lee Strasberg) e il commediografo Clifford Odets. Proprio in quei giorni Odets aveva pronunciato l'elogio pubblico di un amico, durante i funerali di costui, e poco dopo ' non senza ironia ' ne aveva ripetuto il nome in un'udienza sull'infiltrazione comunista a Hollywwod. Qualcosa di simile fece anche Kazan. Parlò di un certo Art Smith, suo coautore ' disse ' in uno spettacolo teatrale su Dimitroff, il leader comunista bulgaro che i nazisti processarono sotto l'accusa di avere incendiato il Reichstag. Anni dopo il regista dirà al critico francese Michel Cimet che Art Smith era lo pseudonimo da lui usato negli anni di New York (o qualcosa di simile: non ho trovato traccia di Art Smith nei documenti che ho consultato): "In quel periodo eravamo tutti progressisti ' poiché era questo che si diceva allora ' e la domenica sera davamo delle rappresentazioni speciali di pièces a carattere sociale, firmate, tra gli altri, da Clifford Odets. Io stesso avevo scritto con lo pseudonimo di Art Smith un'opera teatrale su Dimitrof. Cliford era anche l'autore di un testo molto bello, un piccolo capolavoro intitolato Wating for Lefty in cui interpretavo un tale che entra in scena per denunciare il fratello delatore. Gridavo: "Sciopero! Sciopero! Sciopero!". Comunque non allestivamo soltanto lavori di questo tipo ma anche pièces sulla poesia del quotidiano. Questo aspetto costituiva un cambiamento radicale: eravamo contro il narcisismo del teatro tradizionale, che metteva essenzialmente in risalto gli attori, conferendo invece per la prima volta dignità ai sentimenti, alle emozioni e alle esperienze dell'uomo della strada".

Questo passaggio dell'intervista a Cimet, con quell'accenno al "delatore", è molto interessante. Da sottolineare, adesso, un altro momento dell'audizione dell'II aprile 1952: "Credo di avere accennato nella mia precedente testimonianza che la cellula era composta da nove membri. Vi comprendevo anche Michael Gordon, ma nel controllare i miei ricordi ho scoperto che non ricordo di averlo mai visto a nessuna delle riunioni cui ho partecipato". Si direbbe, da tale dichiarazione, che Kazan davanti alla Commissione tende, più che a denunciare gli ex compagni, a difendere la propria poetica, il proprio lavoro. Non tanto, dunque, una condanna dei comportamenti altrui. Ma sfruttando al massimo lo spazio concessogli ' e negato a coloro che avevano fatto ricorso al quinto o al primo emendamento della Petizione dei diritti ' una decisa giustificazione delle personali scelte. Non un'abiura, una ritrattazione. Il ripensamento ' del resto cominciato ben prima dell'audizione come mostra un film come Viva Zapata! in cui compare un ambiguo funzionario di partito ' sarà centrale nel cinema di Kazan e, in particolare, in Fronte del porto. Qui, l'interrogativo prende il posto delle risposte preparate, del sostegno acritico di una parte politica. Sempre nell'intervista a Cimet pubblicata nel volume su Elia Kazan curato nel 1989 da Edoardo Bruno in occasione della rassegna "Maestri del cinema" dedicata al regista "Ho compreso l'ambivalenza delle cose, il valore dei punti di vista opposti e soprattutto che scegliere significa fare e farsi del male. Per ottenere una cosa se ne perde un'altra. Tutto era diventato più complicato, a cominciare dalla mia visione dell'umanità. Ho sofferto molto all'inizio. Alcune persone mi avevano voltato le spalle e questo mi rendeva triste".

Per la sua testimonianza, dettata forse dal timore di essere rifiutato dal Paese che lo ospitava ' il sentirsi un outsider è il tormento di ogni emigrato: e tale era Kazan -, il regista perderà vecchi, cari amici. Quasi in polemica con colui che lo aveva accompagnato verso il successo, Arthur Miller scriverà Il crogiuolo (sui processi alle streghe di Salem dei puritani del 1960). E, nel condannare l'isterismo del Comitato per le attività antiamericane, avrà le sue ragioni: Ma, nella difesa dei propri ripensamenti, del distacco da un gruppo che aveva tradito la sua buonafede, che si era man mano distaccato dalle iniziali motivazioni umanitarie, ragioni dalla sua, e parecchie, ne aveva anche Kazan. L'ostracismo che colpisce ancor oggi il regista per una deposizione di cui si è visto il tenore e che, se non saranno pubblicati altri documenti, resta l'unica fonte di cui disponiamo riapre il "caso Kazan". E l'autore di Un volto nella folla e Il ribelle dell'Anatolia (film molto belli) ci sembra più una vittima che un persecutore.