La magia del cinema è anche i suoi volti. Ci sono attori grandi e meno grandi. E poi ci sono quei volti che, dopo averli visti anche una sola volta, non si fanno più dimenticare. Il titolo del film  magari quello sì, non si ricorda più. Il nome dell’attore nemmeno. Ma quel volto si imprime a fuoco, e non si stacca più dalla memoria. Probabilmente è questa la sensazione che accompagnerà gli spettatori dell'opera di apertura della 67ma Berlinale, Django, quando vedranno l’attore francese di origine algerina Reda Kateb (39) nel ruolo del leggendario, e dimenticato, chitarrista e compositore sinti Django Reinhardt, diventato una star del blues e jazz negli trenta rivoluzionando il suono della chitarra, applaudito in tutte le capitali europee, fino all’occupazione nazista della Francia, da dove dovrà fuggire a rischio della vita nel 1943.

Per il naso largo e schiacciato da boxeur, Kateb all’inizio della carriera è stato soprattutto il gangster di vari film francesi.  Il suo primo ruolo è stato nel 2008 quello di uno dealer nella serie Tv di successo Engrenages. Dopo, il grande Jacques Audiard gli ha affidato  un ruolo secondario nel suo dramma che ha sfiorato l’Oscar Un profeta. Due anni fa, sempre da non protagonista, vince un César per il dramma Hippocrate. "Un ruolo come Django ti cambia per sempre. E ti fa crescere", dice Kateb.

"Django era cieco all’inizio. Gli eventi gli hanno aperto gli occhi, la persecuzione nazista che diventa più efferata giorno dopo giorno, anche ai danni dei sinti, solo alla fine bucherà la bolla di realtà, in cui c’è posto solo per la musica, in cui vive".

Vede paralleli con certe resistenze di oggi? "Assolutamente. Più ho studiato la storia di Django, più sono rimasto turbato dalle somiglianze con un certo atteggiamento di indifferenza che è quello dominante anche oggi, in Europa, di fronte alle grandi tragedie dei nostri tempi. Il dramma della Siria, delle migliaia di vittime sul fondo del Mediterraneo in fuga anche loro da persecutori e guerre".

Django Reinhardt però era un grande artista, un talento raro, la sua passione era la musica, la sua ragione di vita anche. L’attualità, fino a quando è diventata un incubo, non era la sua priorità. "Reinhardt ha rivoluzionato il suono del Banjo e della chitarra. A causa di un grave incidente con il fuoco, della mano sinistra usava solo tre dita, e ha inventato così il movimento del plettro in verticale. Con il suo quintetto ha inventato il jazz europeo, con influenze zigane, classiche e della tradizione mitteleuropea. Ma Django era anche un nomade sinti. E se non avesse avuto il suo talento e la fama sarebbe stato deportato come tutti gli altri. La storia di Django è attuale più di sempre. Chi si sente al riparo dagli eventi della storia, è meglio che si guardi intorno“. Conosce la passione per la musica? "Conosco la sensazione di affondare nella musica, l’isolamento dal mondo che la musica può dare".  Conosce anche la cecità degli artisti, come quella di Django? "Conosco il dubbio di molti artisti e tra questi metto anche gli attori: quale posto e valore dare all’arte? È legittimo godere dei privilegi che da? Che titolo morale da per decidere della vita degli altri? La scena verso la fine del fino quando Django deve dare il concerto al ricevimento degli ufficiali nazisti e con il suo jazz gitano per un momento fa girare la testa anche ai gerarchi, è un momento di ottimo, anzi, di grande cinema".