Una nave, un porto e un migrante per una denuncia sociale tradotta in poesia. Per la prima volta in concorso alla Berlinale (aveva partecipato ad altre nove edizioni ma sempre nella sezione Forum), Aki Kaurismäki è accolto in trionfo e punta dritto all’Orso d’Oro. Dopo la Francia di Le Havre il regista finlandese torna a Helsinki, per raccontare un’umanità che sopravvive al cinismo contemporaneo. Il  protagonista è un rifugiato siriano. "Oggi mi pare che solo Angela Merkel, fra i potenti, si stia preoccupando dei migranti”, dice il regista finlandese.

Una storia per tutti coloro che credono (ancora) alla forza creatrice del bene, alla solidarietà tra gli esseri umani, anche sconosciuti, e per tutti coloro il cui cuore si riscalda al calore del blues finlandese.  "Una storia per ogni luogo e tempo, e anche dolorosamente contemporanea", dice il regista. "In Europa sessant’anni fa c’erano 60 milioni di migranti. La generazione dei miei genitori, in tutta Europa, ha aiutato quelle donne, quegli uomini, quei bambini. E oggi? I migranti sono i nostri nemici. Dove è finita la solidarietà in un continente che si fregia di una superiorità morale nel mondo? Se non riusciamo, o non vogliamo, essere umani, non dovremmo esistere a questo mondo".

Parole dure quelle che Kaurismäki pronuncia con i giornalisti. Nel suo paese, la democratica e liberale Finlandia, un ministro ha recentemente parlato di islamizzazione dell’Europa. "L’islamizzazione è una scusa per vestire di contenuti l’ignoranza, la paura, la manipolazione. I problemi esistono nella situazione attuale. In ogni situazione in cui culture e genti si incontrano. Il rischio è che si creino società parallele". Che esistono in ogni grande città europea. "Certo. È un effetto di integrazioni non riuscite, non gestite o non volute. Ma la nascita di società parallele non è una responsabilità esclusiva dei migranti. È anche e soprattutto di chi dovrebbe occuparsi di loro: la politica".

Recentemente ha dichiarato alla stampa finlandese che la reazione dei suoi connazionali al problema dell’immigrazione, che si è acuito negli ultimi due anni, l’ha spaventata. Perché? "Nel 2015-16 sono arrivati molti rifugiati dall’Iraq. Le scuole erano pronte per i bambini rifugiati, gli insegnanti, i traduttori, i servizi sociali erano finanziati al meglio, le case prefabbricate costruite alla perfezione. Tutto era pronto e tutti credevano di essere pronti. Poi, dopo qualche mese, leggevi sui quotidiani notizie sulla linea di: rubata un auto da un rifugiato iracheno, una ragazza è stata toccata in una sauna da un rifugiato siriano, una ringhiera è stata danneggiata da un afgano. Mi son chiesto, ma dove vivo? Cosa sta succedendo? All’improvviso tutti i nostri problemi sono scomparsi, e per tutti i problemi si è trovato un motivo: i rifugiati. La fase successiva sono state le bombe molotov contro i centri di accoglienza. La storia si ripete".

Come è possibile che sistemi democratici solidi come quelli in cui viviamo non riescano ad arginare il senso di paura e gestire un problema che riguarda alcune centinaia di migliaia di persone in un continente con 550 milioni di abitanti? "La volontà manca. I nostri sistemi erano solidi, ora stanno scricchiolando sotto il peso delle loro contraddizioni. A partire dai perfetti paesi scandinavi. La nostra cultura e tradizioni di cui tanto parliamo e che tanto celebriamo, è solo un centimetro di polvere sulle spalle che scompare con un colpo di mano, di fronte a quello che sta succedendo. L’Europa cristiana non ce la vuole fare a risolvere non dico i problemi del mondo, ma le tragedie che si svolgono di fronte alla nostra porta di casa". Non salva nessuno nella sua analisi impietosa? "Mi inchino di fronte alla signora Merkel. Ma non scrivete che il mio è un film politico!".