L’Expo di Milano, evento che la Fondazione Ente dello Spettacolo sta seguendo da vicino con una mostra ad hoc allestita presso lo stand Caritas, ci offre un’opportunità irripetibile: “intavolare” un discorso sul cibo, la cucina, la gastronomia, attraverso l’esperienza filmica.

In un momento in cui l’arte culinaria si staglia (e si appiattisce) sull’intero orizzonte multimediale, colonizzando format televisivi, rivitalizzando l’offerta editoriale e seminando blog specializzati, il cinema sembra il medium meno permeabile, ma anche il terreno di confronto più stimolante.

A differenza della tv - che con i suoi innumerevoli talent-show sulla cucina ha finito per piegare l’universo gastronomico alle proprie logiche discorsive, profondamente agoniche e competitive - e della rete – dove l’oggetto culinario asseconda una irrefrenabile pulsione narcisistica che esibisce il piatto e la ricetta attraverso i social e i blog dedicati – il cinema ha saputo intrattenere con la cucina un dialogo fecondo, capace ora di restituire il momento conviviale in tutta la sua ricchezza culturale, ora di trattarlo allegoricamente, facendone un ingrediente essenziale per narrazioni che parlano d’altro.

Grotte di Lascaux
Grotte di Lascaux
Grotte di Lascaux
Grotte di Lascaux

Vedere, mangiare: preistoria e rituale

Del resto cinema e cibo, vedere e mangiare, sono intimamente connessi. Entrambi piaceri, pure se si rivolgono a sensi diversi (il che è vero in parte: anche l’occhio vuole la sua parte). Qualcuno potrebbe obiettare che il cibo costituisce un bisogno: se non mangio, muoio. Nemmeno il cinefilo più sfegatato potrebbe dire altrettanto del cinema. Eppure c’è nell’arte una necessità che, pur non essendo vitale biologicamente parlando, è essenziale a un livello più profondo: l’anima. L’arte è nutrimento spirituale, tanto quanto il cibo lo è per il nostro corpo. Non a caso le due cose sono legate fin dalla preistoria: l’uomo del paleolitico non ha forse dipinto scene di caccia sulle pareti delle grotte di Lascaux? L’urgenza della rappresentazione e l’esigenza di cibarsi erano già allora strettamente irrelate.

Ma le connessioni sono molteplici. Sia il cinema che la cucina sono fondamentalmente esperienze sociali, di condivisione: i film si guardano insieme ad altre persone, così come si mangia in compagnia. Ecco perché è tanto difficile ancora oggi, che pure viviamo in culture solipsistiche, vedere qualcuno andare al cinema da solo o sedersi al tavolo del ristorante in beata solitudine. Così come viene spontaneo associare un sentimento di tristezza all’esperienza individuale e privata della fruizione, tanto dei film quanto del cibo. Nell’uno e nell’altro caso ci pare si tratti di un impoverimento.

La natura collettiva del pasto e della visione deriva della loro vocazione comunicativa, fatta di ruoli, regole e retoriche precise, che discendono da una tradizione e si radicano nell’esperienza.

Non a caso si usano espressioni come rituale del cibo o ci si riferisce al cinema parlando di liturgia laica. L’italiano crea poi ulteriori associazioni: non è curioso che per la settima arte si parli di messa in scena?

E’ una coincidenza ricca di suggestioni. Dopotutto, se nella celebrazione eucaristica si spezza il pane perché ne prendano tutti, nello spettacolo cinematografico il mondo frantumato dal montaggio e ricondotto all’Uno dall’autore viene “fruito” dal pubblico.

Cibo e cinema sono poi rituali segnati da tre momenti comuni: la preparazione, la presentazione e il consumo. A maggior ragione oggi con la diffusione di una ristorazione apertamente scenografica, in cui sempre più spesso il piano del cibo si intreccia a quello del racconto verbale. Un processo che coinvolge lo chef (chiamato ad esporre le sue creazioni al cliente), il consumatore (interlocutore privilegiato del patto comunicativo) e persino i menù, sempre meno un elenco di portate e sempre più percorso discorsivo, sensoriale e memoriale.

Julie & Julia
Julie & Julia
Julie & Julia
Julie & Julia

Un’abbuffata retorica

La cucina possiede una sua retorica, legata indissolubilmente ai concetti di creazione, piacere, condivisione, ospitalità. Una retorica che il dispositivo cinematografico sembra assimilare e rilanciare, declinandone gli elementi specifici in relazioni mitiche, antropologiche, simboliche. La retorica del training di Julie & Julia, Chocolat o La finestra di fronte, dove la trasmissione di conoscenze non resta confinata a tavola. La retorica femminista di Ricette d’amore, che prevedono un percorso di emancipazione in contesti normalmente appannaggio degli uomini. La retorica etnica di Amore, cucina e curry, dove la gastronomia è il collante delle diversità culturali. La retorica sentimentale, delle storielle d’amore tra i fornelli. Quella erotica, dove l’assaggio e la degustazione diventano assaggio e degustazione dell’altro. Simbolicamente, persino letteralmente: ne Il cuoco, il ladro, sua moglie, l’amante di Greenaway, il marito è costretto dalla moglie a mangiare il corpo cucinato dell’amante. Perché non sempre la retorica del cibo è retorica di vita: ne La grande abbuffata di Ferreri, cibarsi fino a morire è l’espediente allegorico per denunciare gli eccessi di una borghesia abulica e destinata al suicidio. Eccezioni, perché quasi sempre mangiare è bello, è sano, è sacro. Come in Kramer contro Kramer, che si apre e si chiude con due scene speculari e agli antipodi, con il protagonista Ted intento a preparare la colazione al figlio: risultato disastroso nell’incipit, perfettamente riuscito nel finale. O come nel Pranzo di Babette, in cui l’umile eroina spende la sua vincita alla lotteria per preparare un pranzo come si deve ai dodici commensali. Un autentico apologo del dono, un inno alla convivialità della tavola, dove l’unico buon pranzo ammesso è quello con (e per) gli altri.